H uitlacoche si chiama il fungo del mais in Messico, una pestilenza che invade la pannocchia, la corrompe solidificandola come in sassi. Ha l’aspetto d’escrescenza catramosa, ma grazie al suo sapore dolciastro i messicani lo usano nella loro cucina. Per raccontare la tinta del mondo che troverete in un autore come Juan Rulfo, forse dovrete guardare idealmente a quell’escrescenza petrosa. Perché il biondo mais, ingrediente e spirito di quelle terre, nello scrittore messicano pare completamente abbracciato da un fungo velenoso e dolce a un tempo. Narrando in bianco e nero l’asprezza della sua terra di peones e cacicchi, guerriglieri impauriti a morte e matti, figli che fuggono o che ritornano, l’autore non vi farà però totalmente soffocare in una realtà compromessa dalla tragedia. Vi costringerà piuttosto a subirne gli influssi, quasi a amalgamarvi con essa in una metamorfosi, in cactus vizzo, in arbusto dal nome impronunciabile, in zolla inzuppata dalla pioggia improvvisa su una pianura sterminata. Il Messico di Rulfo non è però solo cosa concretissima: è un turbine di echi che abbacinano il lettore, lo dissolvono in un limbo o meglio, come per gli aztechi, un inframundo tra la vita e la morte, che della vita ha la crudeltà, della morte la magia. Il 16 maggio si celebra il centenario della nascita. Perché dovremmo festeggiarlo anche in Italia?
Al di là dell’omaggio di Italo Calvino nel romanzo-nel-romanzo “Intorno a una fossa vuota” di Se una notte d’inverno un viaggiatore, e all’attenzione di intellettuali come Ernesto Franco e Paolo Collo, l’impatto di Rulfo in Italia è stato contenuto. Nato nella provincia messicana, orfano di padre e di madre, cresce a Guadalajara per poi trasferirsi nella tentacolare Città del Messico post-rivoluzionaria del 1936, assumendo incarichi dirigenziali e più avanti la direzione dell’Istituto Nazionale di Studi Indigeni. Diventerà scrittore riconosciuto a metà degli anni Cinquanta, componendo in una manciata di anni i suoi capolavori, ma condurrà una vita letteraria appartata, dedicandosi soprattutto a scrivere sceneggiature per il cinema, e all’attività di fotografo. Un autore così troppo esile da un lato, e troppo poco centrato dall’altro, per fare breccia da noi: un solo vero romanzo, Pedro Páramo (1955, uscito da Feltrinelli nel 1960), preceduto da una raccolta di racconti, La pianura in fiamme (1953), una novella pensata in realtà come abbozzo per il cinema, Il gallo d’oro (1980), e poco più. Ma tanti, tantissimi, lo celebrano, in terra latinoamericana, come il maestro – uno per tutti García Márquez, che si disse sconvolto dalla prima lettura di Rulfo come dalla Metamorfosi kafkiana. In cosa consiste però la sua potenza ancora oggi, ristampato da Einaudi da alcuni anni dopo lungo oblio?
“Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui”. E il romanzo moderno messicano ebbe inizio, forse per la prima volta, con il libro di culto Pedro Páramo, l’epica del paese immaginario di Comala e del suo cacicco deus sive natura. Pedro Páramo sarà il padre di tutti i figli e tutte le figlie della provincia messicana, e un archetipico demiurgo per il futuro delle lettere tropicali (“Incrocerò le braccia e Comala morirà di fame”, dirà in morte dell’amata Susana San Juan, e Comala capitolerà.). Il romanzo inizia con l’arrivo nel paese di uno dei suoi figli, Juan Preciado, alla ricerca proprio del padre, con una promessa di vendetta alla madre morente (“figlio mio, fagli pagare caro l’oblio in cui ci ha lasciati”). Il viaggio di Juan Preciado sarà una catabasi dove incontrerà, si coricherà, verrà inquietato o istruito da familiari lontani e altri abitanti-spettri, che parleranno tramite mormorii, storie sfilacciate di incesti e rancori, ricordi sul padre assassinato e le sue gesta. E che lo distrarranno – anche dall’essere voce narrante – in uno spazio atemporale, con potenti flashback, cambi frequenti di punti di vista, in cui sono i morti e i sotterrati a dialogare senza sosta. “Mi sentivo in un mondo lontano e mi lasciai trascinare”, dichiara Juan Preciado, già dalle prime pagine, “il mio corpo, che sembrava afflosciarsi, si piegava davanti a ogni cosa, aveva sciolto i suoi ormeggi e chiunque poteva giocarci come fosse di pezza”. Così si sentirà il lettore: immischiato totalmente nel limbo del linguaggio di Rulfo, dotato di una straniante precisione lussureggiante.
Molte delle dinamiche di Pedro Páramo si ritrovano già nelle storie de La pianura in fiamme: peregrinazioni, appostamenti, assalti, fughe, rimpianti e sotterramenti nella remota provincia, dove si è spinti dentro come testimoni attivi, come nel caso del racconto spettrale “Luvina”. Il narratore lì si rivolge, in una circolarità borgesiana, a chi prenderà il suo posto (il lettore!) inoltrandosi nella città abbandonata, una vera e propria calviniana Città invisibile ante-litteram. Un viaggio circolare, utile per capire la natura dell’identità messicana, fatta anch’essa di andate e ritorni di persone, colpe, nodi storici, tanto da essere adatto a darci coordinate contemporanee. Possiamo non a caso trovare molti richiami a Rulfo negli ultimi anni della letteratura messicana: dalle fiabe narco di frontiera di Yuri Herrera, nell’ossessione per la provincia in Juan Villoro (penso soprattutto a Il testimone) finanche nel deserto gaddiano di Daniel Sada.
Rulfo è universale perché evita il marchio denigratorio affibbiato spesso allo stesso realismo magico: una sorta d’incapacità della mente latinoamericana di liberarsi dalla superstizione e dal sovrannaturale.
Ma qual era il contesto storico di quel teatro rulfiano, e che lo motivava a girare vorticosamente tra mulinelli di polvere cattiva? Il Messico post-rivoluzionario, tra spinta verso la modernità e repressione statale, effetti della riforma agraria del 1910 e la Cristiada, la guerra sanguinosa che per tre anni dal 1926 vide fronteggiarsi lo Stato laico e i cristeros, quelli che nelle province avevano imbracciato le armi contro le leggi anti-clericali al grido di ¡Viva Cristo Rey! Un momento di tensioni spirituali represse e illusioni di progresso da ingoiare nel profondo. E Rulfo scriveva di quello spazio traumatico circa un trentennio dopo, quando le campagne si erano spopolate per l’emigrazione non solo verso gli Stati Uniti, ma anche verso il miraggio iper-moderno del Distrito Federal. L’autore ritornava alla provincia non però con uno stile da narrativa rurale, indigenista, ma con un piglio totalmente modernista – come in poesia c’era riuscito forse solo Ramon Lopez Velarde.
Nel cuore profondo degli altipiani incoltivabili, nella campagna sferzata dal vento caldo o gelido, affogata dal fango o usurata dai suoi abitanti e dai loro modi brutali, creava personaggi che avevano la caratura metafisica di Vladimiri e Estragoni dell’America Latina – sono gli anni quelli anche della Trilogia e di Aspettando Godot – modelli universali e non ritratti bozzettistici, rendendo vivissima nei dialoghi una lingua spagnola masticata, farfugliata, nelle bocche dei personaggi spesso incolti, pur rimanendovi fedele nella cadenza. In un Messico che ritroveremo in quegli anni anche ne Los olvidados di Bunuel, ma che ricorda molto più il Faulkner di Mentre morivo.
Ma chi sono i personaggi di Rulfo? Per scoprire una mappa dei suoi personaggi emblematici e selvatici servirà ancora rivolgersi alla raccolta La pianura in fiamme: non vengono rappresentati solo padri criminali nello stile di Pedro Páramo, allegorie dello Stato repressivo, ma anche figli che emigrano e se ne vanno contestando l’autorità paterna (il racconto “Paso del Norte”), donne tradite e stuprate, campesinos sfortunati, menomati o minorati (il monologo interiore del racconto “Macario” ne è uno straordinario esempio). Oppure i contadini fregati dalla riforma agraria nell’ostinata ricerca di una terra buona da coltivare in “Ci hanno dato la terra”, o quelli che si struggono per una vacca portata via dal fiume in piena (il racconto “È che siamo tanto poveri”). E come già anticipato: i morti, o i morenti, o meglio ancora i sotterrati o sotterrandi, come il corpo morente di Tanilo trascinato da Zenzontla fino alla Vergine di Talpa (nel racconto “Talpa”) dal fratello e dalla moglie Natalia, in modo tutt’altro che amorevole.
Oppure i soldati affiliati al villista Pedro Zamora del racconto che dà titolo alla raccolta, e che ricorda il Grande Sertao con quel suo nervosismo stilistico spiritato. In un dialogo tra desterrados (i senza patria) ed enterrados (quelli la cui unica patria è le terra di una fossa) costante nell’opera di Rulfo. Si muovono in contesti abbandonati e inospitali, per le strade oppure tra le gole fischianti di un canyon, dei quali la mitica Comala sarà simbolo e summa: “Questo paese è pieno di echi”, si legge in Pedro Páramo, “ti sembrano rinchiusi nel vuoto delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini, senti che ti calpestano i passi. Senti degli scricchiolii. Risate. Risate oramai molto vecchie, come stanche di ridere. E voci oramai logore dall’uso.” Lande dove si cammina alla ricerca, impossibile, di un approdo, perché “dopo tante ore passate a camminare senza incontrare neppure l’ombra di un albero, neppure un seme di albero, né una radice di niente, si sente” solo “il latrare dei cani”. E alla fine del viaggio si muore (o si è già morti) per mano malvagia e innocente ad un tempo, oppure d’ossessione: “Mi hanno ucciso i mormorii”, bisbiglia Juan Preciado, che descriverà la propria morte come una sorta di soffocamento, ma anche come un disgregarsi e amalgamarsi con la terra, le pietre di Comala, quasi affogando nel corpo di una di quelle donne misteriose con le quali si risveglia:
Il caldo mi fece svegliare intorno alla mezzanotte. E il sudore. Il corpo di quella donna fatto di terra, avvolto in croste di terra, si disfaceva come se si stesse sciogliendo in una pozza di melma. Mi sembrava di nuotare nel sudore che da lei grondava e mi mancò l’aria necessaria a respirare … Non c’era aria… Ricordo di aver visto qualcosa come nuvole spumose che facevano mulinello sopra il mio capo e poi di essermi sciacquato con quella spuma e di essermi perso nella sua nebbia.
“Nuvole spumose che facevano mulinello…”: uno dei protagonisti indiscussi nel narrare rulfiano è lo stesso ambiente, la natura e il suo clima. L’evento atmosferico sovverte il tempo della modernità, scandisce un tempo in attesa di un kairos, direbbe Kermode, di un senso: rappresentato nel sibilare del vento, nel franare della terra, nel frastagliarsi delle nuvole, in Pedro Páramo è imprescindibile. Ma già nel racconto “Luvina”: dicono da Luvina che da quei precipizi salgono i sogni; ma io l’unica cosa che ho visto salire da là sotto è stato il vento, con un gran boato, come se soffiasse dentro tubi di canna.” E i personaggi svaniscono nell’ambiente, identificandovisi, o riecheggiandolo. Come in quella descrizione di donna sconsolata, la Tacha di “È che siamo tanto poveri”: La donna è descritta piangente e “dalla bocca le esce un rumore che assomiglia a quello del fiume, che la fa tremare e la scuote tutta, mentre la piena continua a salire”. O ancora lo stesso Pedro Páramo che muore assassinato sgretolandosi in pietra: “diede un colpo secco contro la terra e si sgretolò come se fosse un mucchio di pietre.”
La forza di Rulfo è quella magica – senza necessariamente affossarsi nei canoni esotizzanti del realismo magico – di fare dei corpi stereotipati dalla sociologia e dalla retorica campesina degli attori universali, esimendoli così dalla funzione di capri espiatori di una realtà ricorsiva. Facendo questo Rulfo è universale perché evita il marchio denigratorio affibbiato spesso allo stesso realismo magico – la sua critica latente: una sorta d’incapacità della mente latinoamericana di liberarsi dalla superstizione e dal sovrannaturale. Il sovrannaturale di Rulfo è pari ad un Poe perché mostra le regole orrifiche che rompono con le logiche della realtà. Il suo mondo gretto e meccanico ricorda Faulkner, nel rendere questa meccanica una saga originaria, un mito naturalissimo. Non sorprende sapere così che fu lo scrittore islandese Halldór Laxness e il suo Gente indipendente che influenzò Rulfo, come riportò Carlos Fuentes. “Smettila di avere paura”, dice una voce di donna a Juan Preciado già sepolto, “nessuno può più farti paura. Cerca di pensare a cose piacevoli perché dovremo stare per molto tempo sepolti”. Noi lettori di Rulfo rimaniamo sepolti vivi fin dalla prima lettura. E ciò ci piace.