U na delle sale della Neue Gallerie di Kassel, in occasione della XIV edizione di Documenta, è stata dedicata a una misconosciuta artista di nome Lorenza Böttner. La sala attende il visitatore poco dopo la piccola retrospettiva sull’ex attrice hard e attivista Annie Sprinkle. Di Lorenza Böttner, arrivati al giorno di agosto 2017 in cui scrivo, non esiste neppure una pagina Wikipedia. Lorenza, che muore a 35 anni nel 1994, nasce in realtà col nome di Ernst Lorenz. È un bambino, un maschio. Nasce nel 1959 da genitori tedeschi a Punta Arenas, città di mare nell’Antartide cilena. All’epoca in cui ha appena nove anni, quindi nella seconda metà degli anni ’60, un giorno si arrampica sopra un palo dell’alta tensione. Sopra quel palo ha notato un nido di uccellini. Forse rondini. Si arrampica per arrivare con le dita a quel nido. Quando finalmente può toccare l’involucro di ramoscelli secchi, la mamma uccello, forse sentendosi minacciata, sbatte all’improvviso le ali. Così Lorenza, alla vista dell’animale e delle ali aperte e tese, si spaventa, ha un sobbalzo e teme di precipitare. Per questo motivo d’istinto afferra entrambe le mani intorno ai cavi dell’alta tensione. A quel punto il bambino cade a terra e si risveglia sei ore più tardi in un letto di ospedale. Le braccia, bruciate dalla violenta scarica elettrica, gli verranno amputate in un ospedale di Santiago del Cile. Prima dai gomiti in giù e poi, a causa della cancrena, per intero.
Su Lorenza Böttner esiste un breve documentario, in bianco e nero, dal titolo Lorenza. È stato girato negli anni ’80 in Germania, proprio a Kassel, dove si era trasferita per studiare arte dopo che, all’età di 14 anni, era arrivata con la madre a Lichtenau, una città vicina, per sottoporsi a una serie di interventi di chirurgia plastica. Lorenza viene filmata, anni e anni dopo l’episodio del palo dell’alta tensione, nella sua vita di ogni giorno. Vestita di un lungo e soffice spolverino senza maniche, esce da casa per fare la spesa in un mercato rionale, per poi rientrare nel suo silenzioso e discreto appartamento. In queste scene girate tra i banchi della frutta e dei formaggi, si intravede un rapporto liturgico col cibo, con la vita e con la terra, un rapporto che sembra tanto sacro quanto quotidiano.
Al suo rientro un cameraman si trova già all’interno della casa. Da questo punto in poi possiamo osservare come una persona priva di braccia se la cava nella vita di tutti i giorni. La porta si apre e vediamo Lorenza, con uno zainetto appeso a una spalla, abbassarsi all’altezza della serratura ed estrarre con la bocca la chiave che, probabilmente, era stata inserita e fatta ruotare nella toppa tenendola stretta tra i denti. Quindi la chiave viene lasciata cadere in un portaoggetti sopra un mobile. Con un brusco movimento del busto mutilato Lorenza si libera dello zaino, che finisce sopra un divano, e con un successivo scossone si sveste dello spolverino. Aiutando il piede sinistro col piede destro, grazie a una collaborazione degli arti inferiori perfettamente collaudata, si toglie prima le scarpe e poi i calzini.
Quindi la gamba destra si piega mentre il piede, rapidamente, si alza incontro al volto abbassato: con un gesto contorsionistico dell’alluce e del secondo dito afferra per un’asticella gli occhiali da vista, fino a depositarli, con un movimento preciso che ricorda il braccio di una gru, sopra il tavolo basso che sta di fronte al divano. Di nuovo con il piede destro si toglie il maglione, restando in t-shirt, e si sposta nel cucinino. Seguito dallo sguardo di una steadicam, apre e chiude un rubinetto per riempire una teiera che viene poi sistemata sopra un fornello acceso. A questo punto torna al divano dove si spoglia quasi del tutto, restando in mutande di fronte allo spettatore, per poi indossare una veste, un elegante caffetano, che le scende fino alle caviglie. Dai lobi pendono un paio di orecchini. Con un piede si riavvia i capelli, che porta molto lunghi.
Ogni operazione viene compiuta grazie alla estrema elasticità degli arti inferiori e alla massima prensilità dei piedi, con i quali riesce a fare praticamente tutto, con la grazia e la sprezzatura di un circense. Tra il sesto e il decimo minuto di Lorenza assistiamo a una sorta di saggio, di coreografia, di esibizione. Contempliamo qualcosa di meraviglioso che origina dalla lingua e dalla magia del corpo. Il confine tra vita e performance, tra arte e handicap, tra spazio domestico e ciò che sembra una sorta di tempio, si è appena mostrato in tutte le sue sfumature. Con bocca e piedi, soprattutto, Lorenza Böttner, è capace di modellare la creta, disegnare, usare carboncini, pennelli, ed è in grado di stendere il colore sulla tela, inserendosi in quella specifica tradizione artistica e pittorica che riguarda invalidi e mutilati privi degli arti superiori. Questa stessa tradizione è diventata anche oggetto di ricerca teorica nella tesi dal titolo “Behindert?” (“Disabile?”, ma il termine tedesco viene dal verbo che vuol dire impedire, ostacolare), con la quale Lorenza si è diplomata presso la scuola d’arte di Kassel.
Lorenza Böttner non è interessata a documentare il superamento di un deficit; desidera invece parlare di sé e del proprio corpo, che non è soltanto quello di un mutilato, ma il corpo di un transessuale. “Sono un’esibizionista”, dice, “ma non lo sono sempre stata. Lo sono diventata a causa della mia invalidità”. Nei suoi quadri, alcuni dei quali sono stati esposti a Documenta insieme a una serie di ritratti fotografici, appare in abiti femminili o in una serie di nudi nei quali la tensione erotica non è oscurata, ma messa in scena in modo tanto fragile quanto muscolare e istrionico. Böttner ha fatto della propria anatomia uno strumento di espressione, una dichiarazione, una scultura, una testimonianza, anche a partire dal rifiuto d’indossare protesi. Prima ancora della pittura, inoltre, c’è stata la vocazione per il ballo. Lorenza ha studiato danza classica, jazz, tip tap e non ha mancato di esibirsi. Fin da adolescente ha disegnato e cucito per sé, con una vecchia macchina da cucire, gli abiti che sognava d’indossare, mentre era in grado di stringere la matita con le dita dei piedi per truccarsi di fronte a uno specchio.
L’operazione chirurgica per il cambio di sesso completa la transizione da Ernst Lorenz a Lorenza, segna la riappropriazione del destino del proprio corpo, dopo la serie di interventi chirurgici subiti da bambino in conseguenza dell’incidente, e rappresenta, infine, un consapevole spostamento in direzione della performance e della body art. Il lavoro di Lorenza Böttner, misconosciuto, si offre ora come un oggetto di potenziale e straordinario interesse a chiunque si occupi di disability studies, queer studies o dell’intersezione tra le due aree di studio. Nel periodo in cui Lorenza visse e studiò a New York, uno dei suoi lavori fu proprio una performance ispirata alla Venere di Milo. “Volevo mostrare la bellezza di un corpo mutilato e mi resi conto di quante statue erano ammirate per la loro bellezza pur essendo prive delle braccia”.
Nella mostra allestita alla Neue Gallery di Kassel, il lavoro che destava più curiosità tra i visitatori, probabilmente per le involontarie connessioni con il dibattito corrente sulle nuove forme di genitorialità, era il quadro nel quale Lorenza si era autorappresentata nell’atto di nutrire un neonato con un biberon. Il biberon è tenuto stretto tra mento e collo e tutto il corpo è coinvolto nello sforzo di piegarsi, accudire e nutrire il bambino, concentrando in una sola immagine – arcaica e mammifera – più suggestioni: desiderio filiale, percezione del limite e fantasmagoria biopolitica. Nello sguardo giocoso di Lorenza si può scorgere, inoltre, quasi un’aspirazione al ruolo di bambinaia e Mary Poppins. Tra gli altri materiali in mostra, si trova anche una curiosa foto di un piccolo Ernst Lorenz, ancora con le braccia, arrampicato in cima a un pilone e sorridente. Nel 1992, due anni prima di morire a causa dell’HIV, su invito del comitato paralimpico Lorenza indossa i panni di Petra, mascotte ufficiale alle paralimpiadi di Barcellona disegnata da Javier Mariscal.
All’età di 14 anni, come già scritto, Lorenza aveva lasciato il Cile, poco dopo il colpo di stato del generale Pinochet, per recarsi in Germania con la madre e affrontare una serie di interventi medici. Nonostante ciò, e per quanto la sua figura sia rimasta sostanzialmente sconosciuta in Cile, più di uno storico e di uno scrittore hanno cercato di includere Lorenza Böttner nell’elenco degli artisti e degli intellettuali oppositori di Pinochet. Come messo in luce nello studio di un dottorando, Carl Fischer, pubblicato nel 2012 dall’Università di Princeton, si tratta di un tentativo in qualche modo abusivo nei confronti di una poetica e di una traiettoria artistica irriducibili anche a questo genere di semplificazione. In Stella distante, romanzo breve pubblicato in Italia da Sellerio, Roberto Bolaño ci ha lasciato alcune pagine dedicate a Lorenza Böttner, nelle quali, tra le altre cose, si dice che Lorenza era soprannominata “l’acrobata eremita” e che la gente le chiedeva come facesse ogni volta a pulirsi dopo essersi alzata dalla tazza del cesso.
Il bambino si chiamava Lorenzo, credo, non ne sono sicuro, e ho dimenticato il suo cognome, ma più di uno se ne ricorderà, e gli piaceva giocare e salire sugli alberi e sui pali dell’elettricità […] Studiava e imparava. Cantava per le strade. E s’innamorava, perché era un romantico impenitente. Le sue delusioni (per non parlare di umiliazioni, spregi, ingiurie) furono terribili e un giorno – giorno segnato da una pietra bianca – decise di suicidarsi. Una sera d’estate particolarmente triste, mentre il sole calava dietro l’Oceano Pacifico, Lorenzo si buttò in mare da uno scoglio usato esclusivamente dai suicidi (e che non manca mai in ogni tratto di litorale cileno che si rispetti). Colò a picco come una pietra, con gli occhi aperti, e vide l’acqua sempre più nera […] La sua vita, allora, così come ricorda la leggenda, sfilò davanti ai suoi occhi come un film. Alcuni pezzi erano in bianco e nero e altri a colori. L’amore della sua povera madre, l’orgoglio della sua povera madre, le fatiche della sua povera madre quando lo abbracciava di notte quando tutto nelle borgate povere del Cile sembra essere sospeso a un filo […]. Con improvviso coraggio decise che non sarebbe morto. Dice di aver detto adesso o mai più e che tornò in superficie. L’ascesa gli sembrò interminabile; tenersi a galla, quasi insopportabile, ma ci riuscì. Quella sera imparò a nuotare senza braccia, come un’anguilla o un serpente. Uccidersi, disse, in questa circostanza socio-politica, è assurdo e ridondante. Meglio trasformarsi in un poeta segreto.
Bolaño sembra dimenticare un semplice dato storico-biografico: un giovanissimo Lorenzo\Lorenza, pochi mesi dopo il golpe, aveva già lasciato il Cile e il mare antartico di Punta Arenas. Non era quindi più in Cile nel corso della lunga “circostanza socio-politica” di cui parla Bolaño. Eppure, l’immagine dell’artista che si lancia nell’oceano da una roccia colpisce, commuove e in qualche modo aderisce correttamente alla figura di Lorenza. È probabile che Bolaño, all’epoca in cui scrisse Stella distante, avesse avuto modo di guardare il finale del documentario Lorenza, nel quale la protagonista, l’artista Lorenza Böttner, si tuffa dentro l’acqua di una piscina, dopo aver percorso, passo dopo passo, la tavola azzurra di un trampolino. Proprio come nel documentario, del resto, anche in Stella distante si menziona la circostanza della spesa dal fruttivendolo. Nel corpo doppiamente amputato forse Bolaño vide la forma di una sorta di una creatura idrodinamica e sottomarina, una quasi sirena che oggi, grazie ai curatori di Documenta, può entrare nella storia dell’arte del nostro tempo.