P er diversi giorni dopo aver visto Chiamami col tuo nome percepivo un’imprecisa fonte di calore e tenerezza pensando al volto di Armie Hammer. Allo stesso tempo sentivo il pungere di una segreta complicità, mista a rispetto, qualora sui social compariva una foto di Timothée Chalamet. Insistevo su loro visi, immaginavo i loro corpi spesso scontornati — dove dormi cuore ritagliato — sotto i costumi dei gala, oltre lo spettacolo dei tappeti rossi e dei photo call, dove il contrasto tra le mie associazioni personali e i loghi degli sponsor si faceva insopportabile e spezzava l’incanto. Quando ho cominciato a feticizzare la produzione del film (le interviste con regista e attori, le location esatte, le polemiche con l’Italia, il romanzo da cui è tratto) ho capito che la magia stava per dissolversi; ma ho anche intuito quale magia cercavo di resuscitare e l’unicità di un film che aveva innescato tale desiderio. Era una sensazione infantile, come quando da bambini non si distingue il personaggio di finzione dall’interprete in carne e ossa in un film che ha impressionato, e si cerca così di prolungare la storia oltre la parola fine, di mantenere viva un’ossessione fittizia nel mondo reale.
“Il desiderio è una strana e reciproca costruzione, un po’ come il rapporto tra scrittore e lettore, due persone impegnate anche a mantenere una fantasia che dipende da entrambi,” scrive l’autrice Hermione Hoby in un articolo su tutt’altro argomento. Questa definizione si può applicare anche al cinema anche se è un’arte più mastodontica, dove il rapporto tra creatore e fruitore si frammenta in più agenti di quelli che intervengono tra un libro e chi lo legge. Soprattutto però quest’osservazione funziona nel contesto di Chiamami col tuo nome: perché sia il romanzo di André Aciman che la trasposizione cinematografica di Luca Guadagnino instaurano esattamente quel rapporto celebrato nella frase di Hoby, sebbene in modo diverso e miracolosamente indipendente l’uno dall’altro. La frase poi è pertinente perché, molto più banalmente, è un film sul desiderio.
Contro etichette che definiscono Chiamami col tuo nome una storia di formazione omosessuale e assegnano al personaggio di Elio l’esclusività di protagonista, si vorrebbe semplicemente vedere la storia d’amore tra un precoce ragazzo di diciassette anni e uno studente americano di ventiquattro, Oliver. Il primo è figlio di un accademico classicista presso il quale il secondo svolge un breve assistentato, durante un’estate degli anni Ottanta, in una villa nella campagna lombarda. Il nome di Armie Hammer-Oliver è il primo ad apparire nei titoli di apertura (da soli una summa del film e dello stile del regista, qui scevro da “guadagninate” che forse prima lo rendevano un autore inattendibile per il pubblico italiano), ma è ad Elio che appartiene lo sguardo narrante e per questo è corretto assegnargli il ruolo principale. Ma Chiamami col tuo nome è un Bildungsroman solo nella maniera in cui ricorda Io ballo da sola — e cioè poco, sebbene Bertolucci sia tra i “padri” citati da Guadagnino. Ed è solo secondariamente un racconto d’amore omosessuale, esattamente come il capolavoro Keep the lights on di Ira Sachs era prima di tutto un ritratto dell’intimità, ben oltre la sessualità della coppia.
Poco prima della citazione di cui sopra, Hoby esplicita la sua metafora scrivendo che “il sesso, come accade di fronte alla ricca ambivalenza della letteratura di qualità, disorienta, non sempre è decifrabile.” Così succede alla materia di Chiamami col tuo nome, che è una materia molto sessuale nella misura in cui assomiglia a un’esperienza diretta: i molti elementi che arricchiscono lo scenario ne universalizzano la vicenda, rendendola accessibile da più angolature. La sua composizione mista e vivida ci trasporta dalle assordanti cicale dell’estate italiana alla noia ronzante dei pomeriggi d’agosto; dall’amore per la cultura all’amore per una persona; da erudite variazioni di un giovane Bach all’esuberanza di Loredana Bertè o Bandolero; da ricordi d’infanzia alle speranze di adulti. È quasi troppo, se non ci fosse la sceneggiatura di James Ivory a contenere il tutto: è così che, per non venir sopraffatti, finiamo per concentrarci sugli aspetti più generici — sia in termini di genere narrativo che sessuale.
Guadagnino svela il crearsi dell’intesa in un modo impercettibile, ma evidente a posteriori.
Marchio del cinema di Guadagnino è un sostrato culturale e sociale di una borghesia estrema, poliglotta e quindi sofisticata sia verso il basso che verso l’alto: uguale importanza si assegna alle albicocche che pendono dagli alberi nel giardino della villa quanto all’etimologia greco-araba del nome del frutto. In più si tratta di personaggi “occasionalmente” ebrei, il che riflette la biografia di André Aciman ma anche l’idea di elezione: non in senso religioso, quanto di ironica auto-esclusione nella condivisione di un “segreto” culturale, complici nell’esperienza dell’emarginazione. “A parte la mia famiglia, sei probabilmente l’unico ebreo che ha messo piedi in città” dice Elio a Oliver quando gli mostra il centro di Crema per la prima volta. “Vengo da un paesino del New England, so cosa vuol dire sentirsi l’ebreo fuor d’acqua”, gli risponde lui. Chiaramente il segreto più grande è un altro; è l’attrazione di Elio per Oliver. Ma se l’ebraismo può essere liquidato con nonchalance, l’omosessualità è gravosa, serissima. Eppure l’intensità del desiderio, la paura del rifiuto, il dolore della separazione — cioè la profondità del sentimento — non sono meno importanti ai nostri occhi, al cuore di Elio, dell’omosessualità: essere respinti è uguale a essere respinti perché gay.
Un’intrigante cripto-emotività aleggia nella prima metà del film, con Elio che cerca di negoziare i sentimenti per l’estraneo appena arrivato in casa. Piccoli gesti lo confondono, perché li nota: una mano sulla spalla dopo una falsa partenza in bici, un massaggio improvviso durante una partita di pallavolo. Ma anche: assenze prolungate, il secco “Later — dopo” con cui Oliver licenzia ogni faccenda in cui non ha pazienza di dilungarsi, un dongiovannismo spudorato con le ragazze del posto. Elio starebbe sempre intorno a Oliver, ma morirebbe piuttosto che darlo a vedere, e così con ostilità tipicamente adolescenziale lo stuzzica, ostenta indifferenza. I due stanno flirtando: stanno parlando in codice. Nell’economia della seduzione, i due termini hanno lo stesso significato, solo che Elio non lo sa ancora. Come scrive ancora Hoby, “la condizione del non sapere è intrinseca all’amore e al sesso ed è anche intrinseca alla narrativa di qualità”. Così Elio si dibatte internamente, ammutolito dalla rabbia di non capire, non voler dire. Perché ammettere che si sta parlando in codice equivale a una mezza dichiarazione, ma allo stesso tempo significa riconoscere di essere stati compresi e dunque di essere corrisposti.
Nel romanzo di Aciman la condizione del non sapere è riassunta da un’estrema autoanalisi del mondo interiore di Elio, un monitoraggio costante della propria coscienza e uno stato di perenne allerta nei confronti del prossimo. Il dialogo con noi stessi come dialogo con l’altro: “chiamami con il tuo nome e io ti chiamerò col mio”, chiede Oliver, replica tanto concisa quanto appassionata al flusso di coscienza suscitato in Elio.
In Chiamami col tuo nome si ritrova molto della Recherche: il dialogo interiore, il ruolo della percezione, il tempo.
Da parte sua Guadagnino svela il crearsi dell’intesa in un modo impercettibile, ma evidente a posteriori — quasi nello stesso modo in cui i due protagonisti si confessano con stupore quant’erano vicini fin da subito. Sono rallentamenti, piccoli tic, istanti giusto un poco fuori sincrono tra un’interazione e l’altra: una gamba allungata un po’ troppo sotto il tavolinetto della piazza, ma tagliata dall’inquadratura; uno sguardo distolto bruscamente ma subito stemperato da un’azione o un controcampo. Nel secondo e terzo atto la camera comincia a sostare su Oliver più di prima, o più da vicino: non è più un oggetto del desiderio, ma un soggetto — con le sue rughe, la sua incertezza, o quella sfacciataggine che all’indomani dell’unione riconosciamo invece come genuini scoppi di felicità. Leggendola così, la cinematografia analitica ma organica di Guadagnino ricorda meno il citato Maurice Pialat di A nos amours e più Alla ricerca del tempo perduto, laddove la parentesi e l’inciso (il fuori campo, il cut) diventano i contenitori di mondi altri, intercapedini del testo dove nascondere segnali o rivelazioni — sotterfugi per scongiurare la parola fine. La risonanza di Proust non è del tutto casuale, essendone Aciman un esegeta e ammiratore, e molto della Recherche si ritrova in Chiamami col tuo nome: il dialogo interiore, il ruolo della percezione, il tempo.
Nella trasposizione cinematografica quest’eredità letteraria, quasi stilistica, non è persa. Anzi. La scena a cui ritorno ogni volta per riesperire le sensazioni del film ha la potenza di un’epifania. Elio e Oliver sono a Bergamo, durante quella che nell’originale era una gita in un’afosissima Roma. Come accade spesso, lo spazio è qui svuotato in favore di loro due: si pensi al giardino della villa, spazzato per contenere Oliver che legge sull’asciugamano, Oliver che scende a passo svelto verso il fiume, Oliver che torna all’alba asciugandosi il sudore con la camicia; o la strada verso il tabacchi, spianata di fronte all’incedere di entrambi in una delle prime sequenze del film. Tutte le piazze sempre assolate, disertate come se fosse mezzogiorno a ferragosto, e loro in mezzo, minuscoli, in espansione contro la tensione dell’immagine. Così Bergamo Alta fornisce una cornice quasi lirica: i due stanno vagando sbronzi per i ciottolati deserti, solo un lampione ogni tanto, quando sentono da lontano “Love my way” dei Psychedelic Furs. Seguendone l’eco, incontrano dei ragazzi che ascoltano la canzone in macchina con le portiere aperte, sotto la Basilica di Santa Maria Maggiore. Le campane rintoccano. Oliver è in estasi: prende la ragazza per mano e la porta a ballare sotto la volta dell’ingresso. Condividendo en passant un frammento della sua vita prima del viaggio in Italia, esclama “Li ho visti l’anno scorso. Richard Butler… fantastic!”. Elio, seduto in disparte, guarda e all’improvviso vomita. Ha decisamente bevuto troppo.
Eccolo lì, più della carnalità per niente scabrosa e anzi molto erotica delle scene di sesso, è quello un istante di vera intimità, la paradossale unione in un momento di separazione. Mettersi a nudo quando si è soli, insieme. È una dichiarazione d’indipendenza e allo stesso tempo la condivisione di un segreto — “Blessed be the mystery of love”, usando le parole di Sufjan Stevens che hanno straziato ogni singolo spettatore. Il vero amore non è trovare la propria metà: è diventare la metà che manca. Amarsi col nome dell’altro.