

Abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori de Il Tascabile di curare dei percorsi di lettura: romanzi, saggi, memoir, film, documentari che esplorano e approfondiscono un tema a loro scelta. Dato il numero di adesioni, lo abbiamo diviso in quattro “episodi” al cui interno troverete libri che spaziano dall’evoluzione al concetto di tempo, dalle camere di hotel all’autofiction, dalle distopie ai problemi del presente. Questa è la seconda. Buone vacanze e buona lettura!
Camminare
di Francesco Guglieri
Per quanto il camminare sia da sempre in qualche modo collegato con il pensare, al punto di aver fornito la sostanza a molte delle principali metafore legate al ragionamento (dal “cammino della conoscenza” in giù), è con la modernità che il gesto di attraversare uno spazio a piedi acquista un valore specifico. In un certo senso, allora, il camminare come attività a sé stante è una conquista della borghesia urbana, dal momento che le principali assiologie intorno cui si definisce sono l’opposizione città/campagna e lavoro/ozio: prima c’erano nomadi, pellegrini, viaggiatori, esploratori, certo, ma non camminatori. È l’esistenza di una città che rende possibile attraversarne le strade, perdersi nei suoi dedali e annullarsi nel volto anonimo della folla; così come solo l’esistenza di agglomerati urbani permette di uscirne e camminare in montagna o in campagna: è l’invenzione del paesaggio campestre.
Allo stesso tempo il camminare è un’attività che si sottrae alla laboriosità borghese, non conduce a nessun profitto, anzi è pericolosamente vicina al bighellonare, al vagabondaggio ozioso. Inoltre è un’azione solitaria.
La solitudine che prelude al brulichio del pensiero, alla fantasticheria è, del resto, la caratteristica di uno dei primi camminatori nel senso moderno del termine: Le fantasticherie del passeggiatore solitario è una delle opere più perturbanti di Rousseau, di certo uno dei suoi libri più sperimentali: apparso postumo, Rousseau vi si dedicò negli ultimi anni della sua vita, quando ormai da tempo si era ritirato in un risentito isolamento nel suo castello a Ermenonville, in Piccardia. Il libro è composto da una serie di passeggiate che diventano l’occasione per delle digressioni biografiche, ricordi, meditazioni sui temi cari a Rousseau, ma sono soprattutto il tentativo di una mente sofferente, abbattuta, a tratti quasi rancorosa, di trovare la pace nel paesaggio. Ma il paesaggio in cui si cerca sollievo, qui, non ha ancora storia, appartiene a un tempo precedente, quello della purezza sognata, dell’origine immaginaria, dell’infanzia o della fantasticheria: “il paese delle chimere è, in questo mondo, l’unico degno di essere abitato”.
“Nel corso della mia vita ho incontrato solo qualche persona in grado di capire l’arte di camminare”: anche per Thoureau il camminare vale prima di tutto come uscita dalla città, rifiuto della civiltà industriale, elevazione spirituale – con toni non privi di una radicalità al limite del misticismo. Ma in Camminare viene fuori anche il Thoreau osservatore della natura, l’autore di lunghe e poetiche descrizioni di alberi e animali, uno dei primi e più influenti narratori della wilderness americana.
Nel Novecento il camminare – e il camminare in città in particolare – diventa anche un camminare nel tempo, il flâneur, questo grande eroe della modernità annunciato da Baudelaire e canonizzato da Benjamin, è anche uno speleologo del tempo, un viaggiatore della memoria, come se ai suoi spostamenti orizzontali per la città corrispondesse un carotaggio nel tempo storico e individuale. Basti pensare all’Infanzia berlinese di Walter Benjamin in cui l’attraversamento della capitale tedesca viene fatta prima di tutto nella memoria e quello che viene misurato è la distanza, sempre lacerante, tra il presente, il passato e il ricordo (perché passato e ricordo non sono quasi mai la stessa cosa): “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta”.
Lo sa bene quello che è stato senz’altro il maggiore erede dell’approccio benjaminiano alla città e al paesaggio in anni recenti, e cioè W. G. Sebald: Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo, non fa che camminare attraverso le città d’Europa, da Aversa a Parigi, da Praga a Theresienstadt, alla ricerca di una memoria rimossa, in un tentativo di non farsi schiacciare da quel trauma, personale e storico, che è stato il Ventesimo secolo. Ma è già ne Gli anelli di Saturno del 1995 che Sebald esplora tutte le potenzialità della camminata attraverso il paesaggio come straordinario ordigno narrativo e conoscitivo, capace di mettere insieme osservazione naturalistica, memoria storica, passo narrativo e dettaglio saggistico, nature writing e autoficition. Amarissima ironia della storia, questo grande poeta del camminare morirà nel 2001 in un incidente d’auto.
Tra i più sebaldiani degli scrittori d’oggi, autori che hanno fatto del camminare più che della trama le ossature dei loro libri, vanno citati almeno Teju Cole e Ben Lerner. Città aperta di Cole, in particolare, è il racconto di una serie di passeggiate serali di Julius, giovane medico di origine nigeriana, in una Manhattan contemporanea attraversata dai fantasmi dell’11 settembre, delle rivolte per i diritti civili negli anni Settanta, dell’immigrazione e gentrificazione di oggi, dello schiavismo di ieri: una genealogia della violenza condotta con il passo divagante, apparentemente svagato ma attentissimo, di un flâneur contemporaneo.
In Inghilterra, negli ultimi trent’anni, si è formata un’interessante tradizione di scrittori-camminatori: autori, artisti, fotografi, geografi, spesso tutte queste cose insieme, che dell’osservazione e racconto del paesaggio hanno fatto il centro della loro ricerca. Tra i tanti vorrei ricordare Le antiche vie di Robert Macfarlane e lo splendido London Orbital di Iain Sinclair, un attraversamento a piedi dell’M25, la circonvallazione a dieci corsie che circonda Londra. Sono libri e autori che ricordano come il camminare sia un “oggetto sociale” intrinsecamente ambiguo: permette di vedere le linee di frattura di una società ma può anche diventare una facile moda, portatore di uno sguardo solo apparentemente emancipatorio e invece egemonico, diventare esso stesso agente di una gentrificazione che invece denuncia.
I nomi fatti finora sono tutti nomi di uomini: sembrerebbe che quella del camminare sia prerogativa di solo metà della specie umana, come se l’utero non fosse compatibile con i piedi. Non è così ovviamente, e se c’è stata una rimozione delle donne c’è stata solo per motivi politici. Lauren Elkin in Flâneuse parte proprio da qui (anzi dalla parola: il femminile di flâneur è attestata pochissimo) per sottolineare quanto l’accesso delle donne alla strada sia stato (e lo è ancora) uno dei temi politici centrali del moderno – la donna “perbene” doveva restare chiusa in casa, la strada è il territorio degli uomini o delle prostitute. Percorrendo le vie di alcune città che ha abitato o visitato, Elkin ricostruisce la storia delle donne che le hanno attraversate e, in un certo senso, conquistate: da George Sand a Jane Rhys a Sophie Calle.
In Lonely City Olivia Laing scrive una storia della “solitudine in città” che è anche una storia del suo primo anno a New York, appena lasciata dal compagno, quando non conosceva nessuno e passava il tempo girando da sola tra musei e tavole calde.
Due secoli e mezzo dopo Rousseau, il “passeggiatore solitario” non ha più un unico genere.
Di medici e di medicina
di Roberta Villa
Per la maggior parte di coloro che hanno studiato medicina in Italia negli ultimi trent’anni, Rugarli è il nome del testo, l’unico in Italia di taglio anglosassone, che ha spalancato loro il mondo delle malattie, inquadrandole con una completezza e insieme una chiarezza esemplare, tali da rendere facile (insomma, si fa per dire) perfino superare uno dei grandi scogli di quel corso di studi, l’esame di patologia medica.
Per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo personalmente e frequentare il suo reparto, Claudio Rugarli è stato questo e molto di più. Quando affrontava un caso difficile su cui i colleghi si arrovellavano, senza riuscire ad arrivare a una diagnosi, emergeva la stessa lucidità mentale che traspare dal libro di testo, nata da una sconfinata conoscenza ma anche dall’uso di un metodo clinico di ragionamento che univa alla razionalità l’intuito. Quando poi entrava nella stanza di quello stesso paziente, seguito dallo stuolo di camici bianchi in ordine gerarchico, dall’aiuto all’ultimo studente interno, si percepiva subito che davanti a lui non c’era un quesito diagnostico, su cui sfoggiare la sua abilità davanti ai discepoli, ma una persona, con cui mettersi in relazione, indifferente del ruolo che ricopriva e dell’autorevolezza che naturalmente emanava.
Ho ritrovato queste caratteristiche del maestro, del medico e dell’uomo nel libro che il professore ha scritto quest’anno per la collana Scienza e idee di Raffaello Cortina Editore. Medici a metà, che è il titolo del libro, sarebbero quelli che nel loro lavoro dimenticano il punto di vista del paziente, cioè “quel che manca nella relazione di cura” come recita il sottotitolo. Il testo intreccia ai ricordi personali di una vita e di una lunga carriera clinica e accademica riflessioni sul posto che la medicina ricopre tra le altre scienze, sul metodo clinico e sul legame con l’umano di questa professione che può per questo anche essere considerata un’arte, senza mai cedere di un centimetro rispetto al massimo rigore scientifico richiesto a tutela del paziente.
Un’immagine della medicina che purtroppo è difficile riconoscere in un mondo in cui i tentacoli degli interessi economici si sono infiltrati anche nelle scelte degli ospedali e nel rapporto tra medico e paziente. Se da un lato sono sempre in agguato ciarlatani che cercano di abbindolarci con pseudoterapie truffaldine, smascherate nel 2014 dal libro Salute e bugie del ginecologo e debunker Salvo di Grazia, anche la medicina impropriamente definita “ufficiale” talvolta non è degna della fiducia che chiede: la martellante offerta di integratori inutili, esami superflui, cure strabilianti a cui siamo sottoposti configura un “mercato della salute” da cui il suo nuovo lavoro Medicine e bugie cerca di metterci in guardia, con l’alto livello di approfondimento ma il linguaggio accessibile a tutti con cui è diventato famoso in rete con lo pseudonimo di Medbunker.
Se la gente crede a tante fandonie, però, non è solo colpa della sua ingenuità o di chi le architetta a proprio vantaggio. Un ruolo fondamentale purtroppo (e dico purtroppo perché in qualche modo appartengo alla categoria) è svolto anche dalla stampa: quella radiotelevisiva, a cui interessa soprattutto fare audience con storie a effetto; quella su carta o online di testate anche importanti, che non ritiene necessario avere in redazione, accanto ai tanti esperti di sport o economia, anche un giornalista scientifico capace di valutare la fondatezza delle notizie che arrivano e di come sono riportate.
Due tra le migliori giornaliste di medicina che abbiamo in Italia, Silvia Bencivelli e Daniela Ovadia, hanno allora provato a dare il loro contributo, con un’avvincente carrellata su alcune delle storie che hanno tenuto banco sulle prime pagine negli ultimi anni. Con uno stile narrativo avvincente, frugando nei dettagli di queste vicende alla luce della loro cultura medica – entrambe hanno studiato medicina, prima di dedicarsi al giornalismo e alla comunicazione scientifica – fanno chiarezza su una serie di punti di domanda che la comunicazione confusa dei media mainstream a volte ha lasciato aperti: la carne fa venire il cancro oppure no? i vaccini provocano l’autismo? La farina bianca è veleno? Prevenire è sempre meglio che curare?
Ma nel rispondere a queste e molte altre domande cercano di spiegarci soprattutto “perché è difficile parlare di salute”, fornendo gli strumenti utili perché sia meno facile farsi trarre in inganno quando si legge o si ascolta. È la medicina, bellezza! offre anche una ricchissima bibliografia. Ma basteranno questi tre volumi, anche letti in una baita o sotto l’ombrellone, per affrontare il rientro con uno sguardo più attento e critico sul mondo della medicina con cui tutti, chi prima o chi poi, ci dobbiamo confrontare.
Zeitgeist
di Philip Di Salvo
Against Everything di Mark Greif è una raccolta di saggi che, trattando diversi ambiti, cerca di dare una forma allo Zeitgeist di questi tempi che l’autore definisce “disonesti” sin dal sottotitolo del libro. Si è scritto e detto tanto delle difficoltà di trovare una voce collettiva, uno spazio di azione realmente pubblico per la mia generazione e il suo posto in questi tempi accelerati. Greif non ha risposte finali, ma pone il problema in termini che mi ossessionano: capire come certe rivendicazioni personali – come il suo rapporto con il punk da adolescente – che sembravano essere un viatico di autenticità con cui comprendere l’epoca in cui si vive sembrano invece ora inefficaci in un contemporaneo che appare accelerato, disorientante e, appunto, disonesto. Il libro di Greif risponde alla volontà del suo autore di capire perché “so much around me seemed to be false, and contemptible, yet was accepted without a great collective cry of pain”.
Kate Tempest con il suo Le buone intenzioni dà forma, in prosa, a qualcosa di simile, intrecciando le vicende di personaggi, accumunati da una condivisa appartenenza generazionale, in costante ricerca di una forma di autenticità privata in un contesto pubblico – uno Zeitgeist – che appare frammentato e vacuo: “they live under a loneliness so total it has become the fabric of their friendships. Their days are spent staring at things. They exist in the mass and feel part of the picture. They trust nothing but trends. The most that they can hope for is a night out smashed to pieces, sloppy-faced from booze and drugs that hate them in the morning.” Il romanzo di Tempest si sviluppa in parallelo con il suo disco più recente, Let Them Eat Chaos, incentrato attorno a diversi tipi umani contemporanei che non prendono sonno alle 4.18 di mattina in una Londra spietata nel vomitare sia i privilegi che concede sia le sue violenze psicologiche, una città che potrebbe essere un’altra qualsiasi di queste latitudini. Kate Tempest dà forma a uno Zeitgeist fatto di cancellazione del futuro e fantasmi, privati e pubblici allo stesso modo. Quello che a Tempest viene con una naturalezza estrema, però, è stare di fronte a tutto questo e raccontarlo dalla sua prospettiva personale, riuscendo però in una sintesi collettiva cruda che tiene insieme i due ambiti: “and the sickness of the culture, and the sickness in our hearts is a sickness that’s inflicted by this distance that we share.”
Ta-Nehisi Coates ha dato una forma universale a questo modo di guardare lo Zeitgeist e i suoi fantasmi standoci di fronte: ne ha cavato un metodo letterario, forse, e un libro che spiega tutto sin dal titolo: Tra me e il mondo (Codice). Il libro è un intreccio potente di personale e pubblico e il prodotto dell’elaborazione di un vissuto privato dove ogni elemento è un significante tanto di un’eredità identitaria, quanto di ferite e fantasmi che tornano a essere rivendicazioni necessarie. Tra me e il mondo è un capolavoro feroce e lirico che si universalizza sin dal titolo e che riesce a fare di una rivendicazione intima un’analisi dello Zeitgeist pubblico con una potenza senza pari. Il libro di Ta-Nehisi Coates è certamente politico ma lo stesso autore ha, ad esempio, ridimensionato le sue connessioni con James Baldwin in un’intervista con il Guardian. Coates è politico nella misura in cui è “pubblico” e il suo sguardo sullo Zeitgeist è comunicativo: “I mean how you say it actually makes it a more meaningful piece of writing. I am going to push that further. It makes it a truer piece of writing. What you are saying is: ‘Can I make somebody feel this in a deeper way?’ That was what I was obsessed with.”
Se c’è una storia che negli ultimi anni ha tenuto insieme tutte queste dinamiche è quella di Chelsea Manning. Tutta la battaglia della whistleblower condannata a 35 anni di carcere per essere una fonte giornalistica e poi messa in libertà dopo 7 anni grazie alla commutazione della sua pena voluta da Obama è stata una rivendicazione di autenticità. Manning ha lottato per l’affermazione dei suoi diritti e della sua identità e perché la sua rivendicazione personale venisse riconosciuta nella sfera pubblica. Manning ha insistito perché la sua dignità di essere umano uscisse dal carcere insieme alla sua voce di whistleblower. “I am Chelsea”, disse un giorno dopo la proclamazione della sentenza, rivelando al mondo la volontà di essere riconosciuta come la donna che sentiva di essere. La rivendicazione di Manning è durata 7 anni, un periodo in cui la whistleblower è sparita a lungo, inghiottita dal carcere e da uno Zeitgeist politico distopico e ultra-coercitivo nei suoi confronti. Manning è sparita a tal punto dal tempo, vivendo in una bolla di disperazione, bloccata nel maggio del 2010, quando entrò in prigione la prima volta. Quella bolla è testimoniata anche dai libri disponibili su di lei: il più completo e preciso al momento risale al 2013 e ha ancora “Bradley” nel titolo: The Passion of Bradley Manning (Verso Books) del giornalista Usa Chase Madar. Leggerlo ora dice qualcosa sulla velocità di questi anni e la loro istantaneità: nel raccontare un tempo sospeso e interrotto, racconta anche la genesi di quella che è una delle più potenti rivendicazioni mai fatte di fronte allo Zeitgeist da qualcuno nato negli anni ’80.
Memoria
di Nadia Terranova
[memoria, uno] C’è un racconto di Jean Rhys, nella raccolta Io una volta abitavo qui (Adelphi, traduzione di Marisa Caramella e Laura Noulian) che si intitola “Non si spara agli uccelli sui rami”. Una donna riceve un invito a cena da un uomo che le piace, è eccitata e felice, non è ricca ma possiede tutto quello che le serve, un vestito da sera, un mantello sfarzoso, scarpe, calze, però le manca la biancheria, allora va a comprare una sottoveste di seta milanese (dice proprio così: seta milanese), e finalmente è pronta per andare a mangiare con quell’uomo; il problema è che quando comincia la conversazione è tanto emozionata che comincia a dire cose esagerate e si ritrova a raccontare una battuta di caccia favolosa nelle Indie, ovviamente inventata, però sotto sotto mentre parla conosce i dettagli di ciò che sta inventando perché ha visto i fratelli sparare agli uccelli tante volte, l’uomo scandalizzato le chiede se davvero i fratelli sparavano agli uccelli fermi sui rami, e lei vede il disprezzo nei suoi occhi e si ferma, non si ferma solo la sua voce, il suo racconto, si ferma tutto. E la donna dice a noi lettori: la verità è che io non conoscevo la risposta a quella domanda, perché quando i miei fratelli sparavano io mi allontanavo sempre un poco prima e tornavo un poco dopo, e nessuno mi chiedeva la ragione del mio comportamento, quindi non so se gli uccelli erano immobili o in movimento, semplicemente evitavo di essere lì contemporaneamente agli spari. La serata fra i due finisce con freddezza, e il lettore potrebbe ritenerlo un racconto sull’andare in bianco, o sulle leggi delle battute di caccia, o con più esattezza sugli spari, ma appena si accorge che è un racconto sulla memoria torna a comprenderne l’incipit in cui Rhys ci aveva avvertito: la memoria è una cosa su cui non esiste controllo. Jean Rhys era un’artista dominicana di origini britanniche che ha vissuto sola e raminga in molte città diverse, non è mai riuscita a fare l’attrice per via del suo marcato accento caraibico, ha avuto fortuna con un libro straordinario (Il grande mare dei Sargassi) e questi racconti ci portano di nuovo nella sua vita; Rhys e i suoi personaggi, le donne a cui dà voce, non cercano mai le altre persone, però a un certo punto gli uomini appaiono, dicono qualcosa che riporta il personaggio alla sua solitudine e tornano inghiottiti dal nulla, isole di memoria in una navigazione solitaria.
[memoria, due] In questi giorni sto ascoltando l’audiolibro di Caro Michele, di Natalia Ginzburg, letto da Nanni Moretti (Emons). Da tempo non ascoltavo un libro letto per me da qualcun altro e sono ipnotizzata, non ricordo più come si fa, per esempio non ricordavo che in certi momenti bisogna abbandonare tutto e sedersi in poltrona, ascoltare soltanto: non puoi illuderti di tenere a bada in sottofondo una cosa che ti sta assaltando alle spalle. Per esempio quando il padre di Michele muore, e la madre gli scrive che sta soffrendo molto, anche se erano separati da molto e felici non erano stati: “Ma non si amano soltanto le memorie felici. A un certo punto della vita, ci si accorge che si amano le memorie”. In verità è il contrario, a un certo punto della vita si amano soprattutto le memorie infelici, non puoi farne niente se non un romanzo (o una canzone certo, o un film), e allora sai che ciò che non ti uccide ti fortifica è una vigliaccata; non sei morto, non sei neppure più forte e la vita ti è rimasta comunque rovinata. Però puoi farne qualcosa che ti definirà e ti racchiuderà. E se preferiresti rinunciare, tornare indietro e riscrivere tutto al contrario: pazienza.
[memoria, tre] “La grande memoria della vergogna, più minuziosa, più irremovibile di tutte le altre. Quella memoria che, insomma, della vergogna è lo specifico dono”, scrive Annie Ernaux in Memoria di ragazza, il suo ultimo libro tradotto in Italia, da Lorenzo Flabbi per L’Orma, un libro in cui affiorano più nitidi che altrove i meccanismi che rendono unica la scrittura di Ernaux, la capacità di azzerare le distanze del tempo e del corpo, di tutti i corpi che siamo stati. Ernaux è davanti a una fotografia, la ragazza che ha davanti è una ragazza dell’estate 1958, ha il suo nome ma non è lei, è la versione originaria di una donna che un giorno sarà lei. Solo Ernaux poteva scrivere con tanta purezza e spudoratezza come si combinano memoria e scrittura, in che modo ci sbarazziamo e tratteniamo ciò che è accaduto alle sembianze che abitiamo, in quale archivio possiamo mettere la memoria del corpo, quella formidabile e maniacale attrezzista di scena che ogni volta come fosse la prima manda sul palco, solo per noi, in visione disturbante e privata, l’evento che ha selezionato, identico in ogni dettaglio: lo spettacolo si ripete solo per noi, indifferente alla nostra volontà. Ernaux apre le porte del teatro: chi vuole leggere è invitato a guardare.
Scienza e letteratura
di Massimo Sandal
Parliamo tanto di temi scientifici – che siano vaccini, clima, ogm – ma la scienza vera e propria, in questi discorsi, rischia d’entrarci sempre meno. La gettiamo in campo come un carrarmatino per un Risiko da social che, gratta gratta, è solidamente ideologico e politico. Dobbiamo arrenderci quindi a una scienza svilita come fabbrica di mistificazioni in nome di poteri forti cospiratori? O viceversa bastone in mano a chi vuole inculcare nel popolo la fedeltà alle sacre istituzioni? Forse è il caso, questa estate, di approfittarne per respirare. Purificarsi dalle jihad on- e off-line. Ci farà ancora più bene riscoprirlo ignorando la frattura tra le “due culture” perché la cultura, come la mamma, è una sola, e regalarsi in una botta sola meraviglia scientifica e letteraria.
Se questa traccia vi piace possiamo mettere in bagaglio due libri piccoli, così stiamo comodi. Il primo è Organi vitali di F.González-Crussi (Adelphi). Wunderkammer tascabile del corpo umano, Organi vitali è un florilegio coltissimo e divertito di storia della medicina, fitto di aneddotica tanto vera quanto surreale. Il sistema circolatorio, digerente, respiratorio, riproduttivo diventano contrade di una Terra di Mezzo anatomopatologica, di cui González-Crussi annota leggende e verità in egual misura (facendo sempre attenzione a distinguerle, pur notando come sorgano dallo stesso desiderio di comprendere). Marco Polo a bordo del sottomarino di Viaggio allucinante di Asimov, se vogliamo. In Organi vitali nessuna funzione fisiologica è indecente (v’è un intero capitolo denominato Scatologia), ma non per questo meno nobile. Anche gli umanisti più renitenti alla letteratura scientifica vi troveranno diletto: González-Crussi è messicano, vive e lavora a Chicago dove è professore emerito di patologia alla Northwestern University; ma la sua penna, graziata dalla brillante traduzione di Castellari, ha la vigorosa e leggera costituzione dell’erudito europeo. Se avete amato Baudolino di Eco, o Dino Buzzati, o J.Rodolfo Wilcock, potete serenamente affrontare la più inevitabile delle mitologie, quella del vostro corpo.
Il secondo, utile a tollerare certe insonnie estive, è Zanzare dell’entomologa Alessandra Lavagnino (Sellerio). Ne avevo scritto lungamente, quindi mi si perdoni l’autocitazione – è estate anche per me, dopotutto: “Zanzare è un libro che parla, appunto, di zanzare, né più né meno: ma non è saggio e non è romanzo, non è collezione di aneddoti o divulgazione. È, almeno negli intenti, l’enciclopedismo lirico che Herman Melville sprigiona quando parla della balena. La Lavagnino naviga l’equilibrio tra tassonomia e sogno: inserisce all’origine una leggenda vietnamita sulla nascita delle zanzare, quasi ad accreditarne la mitologia, e poche pagine dopo dettaglia le diverse forme delle uova che ricapitolano la filogenesi. Ci fa commuovere con paragrafi leggerissimi (magari leziosi) sulla madre zanzara che depone i suoi figli in uova merlettate, e poco dopo descrive la meccanica e le rotazioni dei bilancieri, organi che consentono il volo. Ogni descrizione non è banalmente divulgativa, non è una spiegazione piana: è la prosa chiara ma allo stesso tempo colloquiale e inebriata di chi racconta un amore. Zanzare è un libro simile alle creature che descrive: volatile, breve, imperfetto, con grazia”. Poche preziose pagine che restituiscono il senso dell’impresa scientifica, svestita delle pastoie economiche, politiche e sociali: un atto d’amore verso la realtà.