L’ aspetto più impacciato e scomodo del mio rapporto con coach Wooden aveva a che fare con il colore della nostra pelle. In campo, tra il suo allenare e il mio giocare c’era un ritmo fluido. Sempre, nella nostra amicizia, c’è stato un flusso spontaneo di rispetto e affetto. Eravamo come nuotatori sincronizzati, come ballerini. Ma, quando c’era di mezzo la pelle, non riuscivamo a trovare un piano abbastanza confortevole per entrambi. Eravamo irrequieti e nervosi. Nei miei anni a Ucla, affrontammo insieme i razzisti, discutemmo della situazione dei neri e fummo testimoni delle dispute razziali tra tifosi. Ma questo non ci ha avvicinati.
Il coach non riusciva a capire che quando sei nero, in America, tutto ruota attorno a quello. A chi non è nero può sembrare una frase provocatoria, ma è solo perché non ha dovuto affrontare le conseguenze di essere nero ogni giorno della propria vita. Chi non è nero, assiste a un riflesso diluito degli effetti devastanti del razzismo, attraverso le lenti biancheggianti della televisione, i commentatori radiofonici di parte e gli articoli di giornale che riassumono gli orrori delle persone in un colonnino di cronaca.
Per gli afroamericani, l’America bianca mancava di consapevolezza nei confronti di questi problemi, mancava della compassione che serviva per vederli e mancava dell’interesse necessario a porvi rimedio. Era come quella scena del film Il diritto di contare, quando l’algida dirigente bianca delle lavoratrici della Nasa dice alla nera Dorothy Vaughn, cui ha reso la vita un inferno: «Non ho niente contro di voi». Al che Dorothy risponde: «Lo so». Poi aggiunge con un sorriso: «So che è quello che lei crede».
Molti americani bianchi, all’epoca, non si consideravano razzisti perché non avevano mai fatto niente di direttamente lesivo, ma come aveva detto coach Wooden in un altro contesto, citando il politico britannico Edmund Burke: «L’unica cosa necessaria perché il male trionfi, è che le persone per bene non facciano nulla». Le persone per bene non stavano facendo nulla, e il male sembrava sul punto di trionfare. Almeno nei quartieri neri e soprattutto nel 1965, l’anno in cui ero matricola a Ucla.
Nei mesi precedenti il mio trasferimento a Los Angeles, le violenze razziali erano aumentate al punto da farci chiedere quanto tempo fosse passato dalla guerra civile. Quel febbraio, una marcia pacifica era terminata con l’uccisione di un dimostrante nero disarmato – Jimmie Lee Jackson, ventisei anni, che si nascondeva in un caffè con la madre – da parte di un agente della polizia di Stato, James Bonard Fowler. Tre giorni più tardi, alcuni membri del movimento Nation of Islam assassinarono Malcolm X, un uomo che ammiravo molto. Due settimane dopo, ci fu quella che rimase famosa come la Bloody Sunday. A Selma, in Alabama, John Lewis guidò circa seicento manifestanti in una marcia per i diritti civili sul ponte Edmund Pettus, dove trovarono ad aspettarli centinaia di agenti della polizia, la maggior parte dei quali era stata nominata quel giorno, quando lo sceriffo della contea aveva lanciato un appello a tutti gli uomini bianchi sopra i ventun anni perché si recassero al palazzo di giustizia a prestare giuramento. Gli agenti, alcuni dei quali a cavallo, attaccarono i dimostranti con manganelli e gas lacrimogeni. A meno di un mese di distanza, il dottor King guidò 2500 manifestanti sullo stesso ponte. Quella sera, i membri del Ku Klux Klan picchiarono tre ministri di culto, uno dei quali morì. Solo un paio di settimane prima che iniziassi le lezioni a Ucla, anche Los Angeles ebbe il suo assaggio di scontri razziali. A Watts, distretto a prevalenza nera, le proteste per la brutalità della polizia aumentarono fino a diventare una vera e propria rivolta. Le violenze si protrassero per cinque giorni, con 34 persone uccise, 1032 ferite, 3438 arrestate e più di 40 milioni di dollari di danni alle proprietà.
Avevo già avuto anch’io alcune esperienze di quelle che ti segnano la vita: avevo intervistato il dottor Martin Luther King, ero rimasto coinvolto in un episodio di violenza razziale a Harlem e il mio migliore amico d’infanzia mi aveva urlato in faccia «Nigger!»*, tanto per cominciare.
Non ero andato in California a giocare a basket per sfuggire ai contrasti razziali che stavano spaccando in due il Paese. Ci ero andato per imparare di più su me stesso, per trovare la mia voce, per capire come potevo dare il mio contributo. Ero pronto a unirmi alla lotta, ma non sapevo ancora con quali armi avrei combattuto.
[Un estratto da Coach Wooden and Me, uscito oggi per i tipi di add editore.]
* Nel testo originale l’autore distingue tra i due termini, negro e nigger, di solito tradotti entrambi con l’italiano “negro”, tollerando il primo come un retaggio del passato (vedi pagina 60) e condannando il secondo come un pesante insulto. Nella traduzione si è quindi scelto di evidenziare questa differenza mantenendo per nigger la parola inglese [N.d.T.].