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l gentismo non rappresenta una sottomarca scadente del populismo, e nemmeno una malattia letale della democrazia o il suo definitivo scadimento. Si tratta invece di un fenomeno complesso e sfaccettato, dotato di una sua specificità, che ha accompagnato la seconda Repubblica come un’ombra. Ed è proprio fissando quest’ombra che si possono capire meglio le ambiguità, le contraddizioni e le pulsioni profonde della politica e della società italiana”.
Lo scrive Leonardo Bianchi alla fine dell’introduzione del suo libro La Gente, edito da minimum fax. Bianchi è stato riconosciuto negli ultimi anni come uno dei giornalisti più affidabili, analitici e informati che scrivono oggi in Italia, grazie ai suoi lunghi articoli, reportage, inchieste politiche pubblicate su Valigia Blu, Internazionale e Vice (dove è news editor). Ha raccontato un Paese in cui il populismo si mescola alle allucinazioni di massa, e il fascismo di ritorno alla propaganda di partiti in crisi in cerca di un consenso a tutti i costi. Se l’oggetto del suo racconto è la grottesca e vischiosa zona grigia di rivendicazioni e risentimenti delle piazze e dei social network, il suo stile è invece cartesiano, di un rigore inattaccabile, il suo sguardo quasi documentarista.
Nel libro ricostruisci le origini e le evoluzioni del termine “gente”, dal dopo Tangentopoli, la disfatta della partitocrazia, la retorica berlusconiana, quella del MoVimento 5 Stelle, concentrandoti però su questi ultimi dieci anni. Quand’è che un gruppo informale di persone si trasforma nella “gente”?
Quando diventa un soggetto con delle istanze radicalmente contrarie alla mediazione politica, ovvero quando c’è una reazione totale e inequivocabile contro chiunque abbia una funzione di rappresentanza.
Come spieghi nel libro, questa reazione è spesso diretta contro la cosiddetta “Casta”, il che genera un’identità di auto-rappresentazione piuttosto debole e frammentaria, dove anzi si rivendica un senso di “non-appartenenza”. A volte però l’identità si radicalizza, come nel caso di nuove forme di indipendentismo: qual è secondo te l’anello di congiunzione tra i due fenomeni?
Ti rispondo con un esempio concreto tratto dal libro: la figura di Lucio Chiavegato, uno dei triumviri del “Movimento 9 dicembre”, quello dei Forconi. Nel volantino ufficiale c’era scritto: “L’Italia si ferma, l’Italia si ribella”, ossia una rivendicazione nazionalista, ma Chiavegato è un indipendentista veneto che si è fatto tutta la trafila dell’indipendentismo. L’identità si può sdoppiare in un determinato frangente storico: nel 2013, che era un momento di grande caos politico, con un Governo Letta molto debole, un sentimento anti-casta molto forte, e i 5 Stelle appena entrati in parlamento, ci stava che un indipendentista veneto – che non si riconosceva nell’offerta politica e partitica – confluisse in un contenitore del genere.
Hai sempre cercato di essere presente nelle manifestazioni di gentismo di cui parli, di scendere in piazza per documentarle. Qual è la differenza tra un giornalista, un osservatore e un testimone?
Credo che nel ruolo del giornalista rientrino anche le altre due categorie. Partecipi, vai a vedere le cose mentre accadono, ma poi c’è un momento successivo in cui serve analizzarle, metterle in relazione, cronologizzarle, tornarci su e cogliere quello che ti era sfuggito.
Quanto è necessaria però la presenza sul campo? Il giornalismo alla Vice punta molto su questa cosa, allo stesso tempo rivendicare la presenza non può rischiare di diventare una forma di auto-legittimazione?
Non sono stato presente in tutte le manifestazioni che racconto nel libro. All’inizio volevo scrivere in prima persona, ma dopo il primo capitolo, quello sulle proteste del #9 Dicembre, mi sono reso conto che non potevo essere fisicamente in tutti i posti, per cui ho rinunciato alla prima persona allontanandomi da quello che descrivi come il giornalismo alla Vice.
Mi sembra ci sia anche una precisa intenzione di allontanarsi dal New Journalism, in cui l’identità di chi scrive ha un peso specifico su ciò che si racconta. Il lettore sa molto poco di te leggendo il tuo libro.
Per me la cosa più importante era raccontare queste storie e che queste storie si raccontassero. Pure quando scrivo per Vice, cerco sempre di non mettermi davanti alla storia, ma di far parlare i protagonisti sfruttando anche materiale che viene dal lavoro di altri giornalisti.
Scusa se continuo sulla questione del metodo, ma mi interessa. Parecchi dei fenomeni di cui parli gravitano intorno alla rete: le varie forme di complottismo, gli appelli a mobilitarsi, le pagine Facebook che veicolano fake news. E tra le fonti che usi, molto materiale proviene da Internet. Non c’è il rischio di cadere nelle stesse trappole che cerchi di demistificare? Ad esempio, a un certo punto parlando di Emilio Tora – autista dell’Atac e unico testimone di un’aggressione per mano di migranti – citi il suo tatuaggio con la scritta “nobis”. Certo, è un indizio sulla sua identità, ma non conoscendo l’origine e le motivazioni di quel tatuaggio, non potresti dare un’interpretazione faziosa?
Qualsiasi tipo di giornalismo è fazioso. Esistono i fatti. Un fatto è che questo autista avesse tatuato “nobis” sul braccio. Ed è un dato che dice molte cose, anche se non so quali sono le condizioni in cui è stato fatto il tatuaggio. Lì subentra il lavoro del giornalista. Se mi vado a vedere la pagina Facebook di Emilio Tora, ed è il manuale del perfetto fascio xenofobo, quel dato si rafforza. È una questione di contesto, ed è esattamente questa la differenza tra un post e un lavoro giornalistico che ti dà il contesto su cui poi ci sarà un’eventuale interpretazione.
In un’intervista su Agora Vox, eri critico nei confronti di Andy Carvin che aveva documentato la Primavera Araba attraverso Twitter. C’è un lavoro chiamato “The Arab Revolt”, in cui il fotografo Giorgio Di Noto ha selezionato e rifotografato dallo schermo del suo computer immagini amatoriali che la popolazione coinvolta nelle rivolte aveva caricato sul web. Quello di Carvin e quello di Di Noto mi sembrano due modi interessanti di interrogarsi sullo statuto e sul linguaggio del giornalismo oggi…
Ho cambiato certe opinioni su Andy Carvin rispetto a quell’intervista, adesso mi rendo conto che aveva un approccio estremamente avanti rispetto ai tempi, anche perché nel 2012 l’Internet non era lo stesso di oggi, e lui aveva fatto un lavoro all’avanguardia con verifica delle fonti e una cura scrupolosissima. Nel 2017 a maggior ragione puoi fare un lavoro di inchiesta a partire dall’Internet, anzi direi che non puoi più tenerlo separato dal lavoro sul campo.
La cosa interessante del tuo libro è che questa mediazione della rete è esplicitata, anche nelle sue forme diciamo “estetiche”. Saper giudicare la qualità di un video, parlare di “immagini macro” per dare un’indicazione identitaria di chi le posta, descrivere come è fatta una fonte, diventa parte del contenuto.
Sì, esatto. Io utilizzo appositamente anche dirette Facebook fatte male, e sono delle fonti insostituibili, ti danno un acceso che non potevi avere, ti fanno conoscere un linguaggio. Nel capitolo sulle vicende di Gorino esamino i video amatoriali di un politico della Lega Nord che tiene i suoi comizi all’interno del bar-ostello dove sarebbero dovuti essere alloggiati i migranti. Non solo io non sarei potuto esserci, ma non sarei potuto esserci in quel modo.
Tornando a parlare di “contesto”, questa intervista sarà pubblicata su il Tascabile, una realtà che probabilmente non si rivolge e non dialoga con i soggetti che racconti. Con l’incremento di riviste online, e la loro progressiva specializzazione, non aumenta anche l’incomunicabilità tra le cosiddette filter-bubble? Come fai ad arrivare alle persone di cui parli nel tuo libro?
Intanto c’è un grosso equivoco da cui dobbiamo liberarci, cioè che si fa giornalismo per far cambiare idea a chi non la pensa come noi. Non ho scritto questo libro con l’intento di dire a un forcone che ha sbagliato tutto nella vita. Ho fatto lavoro prettamente giornalistico per ritrarre una realtà magmatica e sfuggente, cercare di fissarla e capire dove può andare il Paese. Se il leader dei forconi, o chi per lui, è interessato a leggere il libro, ha già tutti gli strumenti che gli servono a rompere le cosiddette bolle: basta andare in libreria. Poi, di sicuro serve tracciare una linea con i più radicalizzati, quelle persone non le recuperi. Puoi recuperare i genitori preoccupati per il futuro dei loro figli, ma non chi crede in un complotto globale e mette insieme scie chimiche e presunti metalli pesanti contenuti nei vaccini. Con chi manifesta un dubbio puoi instaurare un confronto con dati e argomentazioni.
Quello che però manca ai dati è una forma di empatia in grado di creare una narrazione. In un articolo sul Foglio, Vanni Santoni parlava del paradosso per cui ci ritroviamo a dover fare controinformazione contro una controinformazione che è diventata mainstream. Il problema è che il complottismo di per sé è una narrazione affascinante, l’analisi dei dati molto meno. Come si fa a costruire qualcosa di veritiero che però abbia anche la sua spinta narrativa?
Il discorso sulle scie chimiche è molto interessante, nel libro ricostruisco com’è nata e come si è diffusa la leggenda. È una storia che conoscono in pochi, e quella ha di per sé un potenziale narrativo. Alla fine si tratta della manifestazione paranoide di una paura che abbiamo tutti, e cioè il cambiamento climatico. Pensa agli UFO, oggi sono marginali, negli anni ‘50 erano al centro di un’ansia collettiva. Se si infila il discorso climatico in una sfera catastrofista, è normale che vengano fuori storie come quella delle scie chimiche. È un tema enorme e al momento non c’è neppure un consenso scientifico su come uscirne. Prima o poi arriverà, e quando arriverà, cambierà anche il clima culturale in cui ne parliamo. Se vai all’origine di queste narrazioni, ti rendi conto che sono delle spie del nostro presente: se capisci perché hanno preso piede, svanisce la loro allure. Nel momento in cui le normalizzi, e fai rientrare il discorso climatico nell’agenda politica, quelle narrazioni perderanno attrito.
A proposito di narrazioni, anch’io ho una mia teoria complottista. È un momento dove c’è un proliferare di film italiani sulle periferie, i cui protagonisti sono sostanzialmente personaggi anarcoidi, anti-sistemici, alienati, paranoici, rancorosi, fuori da un tessuto sociale, personaggi alla Travis Bickle di Taxi Driver, che citi anche tu come riferimento nel libro. Secondo te può esserci una relazione con il revanscismo gentista?
Non so, non ci ho mai pensato, ma ti cito un caso. A Tiburtino Terzo, a Roma, dove c’era un presidio umanitario della Croce Rossa per richiedenti asilo, si è verificato un assalto dopo che una signora si era inventata un’aggressione da parte di un migrante. Tutta l’attenzione mediatica si è concentrata intorno a un unico personaggio, tale Yari, un tizio pittoresco, col solito repertorio di “non siamo razzisti, ma questi se ne devono andare”. Non era rappresentativo del quartiere, non era rappresentativo di nessun movimento, ma funzionava mediaticamente. Ovviamente è un caso estremo, ma un regista può assorbire questo tipo di comunicazione, personaggi utilizzati per dire ciò che non sarebbe lecito: l’indicibile messo in scena con un certo compiacimento.
Specularmente a questi personaggi sfruttati mediaticamente, esistono le figure dei giornalisti santini. Perché secondo te in Italia non restano le grandi inchieste, ma si sviluppano fenomeni con il “savianesismo”, il “travaglismo”, il “santorismo”…
Principalmente per come funziona il sistema televisivo. Se un giornalista è invitato in TV, deve parlare di tutto. Passi dall’essere un giornalista specializzato a fare l’opinionista. In America, ad esempio, anche i grossi giornalisti sono invitati a parlare di ciò che sanno. Prendi Matt Taibbi di Rolling Stone: durante la crisi finanziaria si era specializzato sui subprime, poi è tornato a specializzarsi su politica e campagna elettorale, ed era tenuto a parlare di quello. Ti faccio un esempio italiano, nelle “maratone Mentana”, sono sempre gli stessi quattro e cinque che spaziano dalla Brexit, al referendum in Catalogna, alle elezioni americane, alle elezioni locali… Non puoi sapere tutte queste cose, ed è un vizio del giornalismo televisivo, che però essendo ancora il più rilevante si riverbera e travolge tutto il resto.
Un’ultima domanda sul concetto di “gente”. Mi vengono in mente due immagini, una al concerto di Patti Smith all’Auditorium di Roma dove il pubblico batte le mani entusiasta su “People Have the Power”, l’altra a un festival molto indie organizzato da The National e Bon Iver in cui il pubblico era chiamato ideologicamente “The People” con tanto di magliette. In italiano la parola “gente” non ha quel genere di impatto emotivo, sembra subito denigratoria. Può essere che sia anche la lingua a favorire il gentismo?
Una cosa che tendo a precisare, e continuerò a farlo – per cui metto mani avanti nell’introduzione del libro – è che per me è sbagliato considerare il termine “gente” solo in maniera denigratoria, perché si tratta di un soggetto politico in un caso, un fenomeno sociale estremamente complesso dall’altro.
Però se dici “gentismo”, puoi mettere quante mani avanti ti pare, ma c’è per forza una connotazione negativa…
Sì, ma una distinzione nell’immaginario politico italiano è nata in un preciso momento. Si è cominciato a parlare più di “gente” e meno di “popolo” con Berlusconi. Nel libro “La sinistra populista” di Sergio Bianchi, del ‘95, che è stato il primo a teorizzare linguisticamente “gentismo” e “populismo”, si dice che Gente o “gente” è l’evoluzione del vecchio popolo, legato ai grandi partiti – DC o PCI; “gente” non è legato a un’ideologia, ma viene fuori dalla retorica sondaggistico-pubblicitaria ed è caratterizzato dal consumo di informazioni, merce e politica. Però anche il termine “people” è ambiguo. Un libro della politologa Margaret Canovan, chiamato proprio “The People” traccia una breve storia di come il concetto di popolo si sia evoluto in varie società, dagli antichi romani agli Stati Uniti. C’è una costante contraddittoria, ossia che il popolo è fonte di legittimazione di ogni potere, ma allo stesso tempo il soggetto che può abbattere quel potere. Dal mio punto di vista, tutta la politica continuerà a giocarsi sul come bilanciare queste due spinte.