Il sei settembre è stata inaugurata la nuova sede dell’Archivio Franco e Franca Basaglia all’interno dell’ l’’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti a campo Santo Stefano, nel cuore di Venezia. L’archivio contiene un patrimonio inestimabile di lettere e documenti legati alla rivoluzione della gestione della cura della salute mentale che fu anche una rivoluzione sociale e culturale radicale e profonda. A un anno dal centenario di Franco Basaglia, abbiamo incontrato a Venezia la figlia, Alberta. Psicologa dell’infanzia, già autrice con Giulietta Raccanelli del romanzo I rintocchi della Marangona (Baldini+Castoldi, 2018) e sempre insieme a Raccanelli, del memoir autobiografico Le nuvole di Picasso (Feltrinelli, 2014) in cui traccia gli anni della propria infanzia quando tutto poteva succedere. E successe. Ad Alberta Basaglia abbiamo chiesto di raccontarci come è nato e come si svilupperà l’archivio.
Da poco l’Archivio Franco e Franca Basaglia ha trovato una nuova sede nel cuore di Venezia, la città dei suoi genitori. Cosa ha significato per lei trovarsi di fronte, negli anni e in questo ultimo cambio di sede, a documenti, scritti e lettere che hanno segnato la loro vita?
Crescere in quella famiglia è stato sicuramente difficile perché ha messo una bambina nel mezzo di una rivoluzione senza accorgersene. E capire le rivoluzioni non è sempre facile. Ritrovarmi in mezzo a quelle carte che per me non sono solo carte loro, ma sono anche ricordi di quotidianità vissute, mi ha fatto capire molte cose di me stessa. Mi ha dato il coraggio e la forza di decidere di raccontare come fosse una favola la storia di una bambina cresciuta, suo malgrado, in un’avventura che fu anche sua. Così sono nate Le Nuvole di Picasso, un libro scritto a quattro mani con l’amica e giornalista Giulietta Raccanelli, che cerca di raccontare da una prospettiva inusuale anche a un pubblico di giovanissimi e di non addetti ai lavori da cosa intimamente fosse composta una rivoluzione così socialmente dirompente. Infatti la verità è che quelle carte sono sì testimonianza del percorso scientifico, politico e culturale che ha portato alla fine del manicomio nel nostro paese, ma sono al tempo stesso dei grandi affreschi composti dalle storie e dagli incontri di un’intera generazione di uomini e donne che anche attraverso amicizia, conflitti, amori, giochi e riunioni interminabili, hanno nutrito le radici di questa grande conquista sociale. Per questo non mi è mai indifferente aprire un faldone, leggere una lettera, trovare un’agenda dove oltre agli appunti di mio padre o di mia madre, trovo anche un mio disegno o un mio pensiero. Anche oggi, a fronte di questo spostamento dell’Archivio – dopo 18 anni sull’isola di San Servolo – nelle stanze dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, mi trovo nuovamente a constatare e toccare con mano la densità di queste memorie.
Perché questa nuova sede per l’archivio?
Questo trasloco nasce in realtà dalle riflessioni stimolate dalla chiusura forzata degli spazi che ospitavano l’Archivio imposta dalla pandemia. Avendo assistito alla psichiatrizzazione del disagio generato dai vari lockdown e dalla pandemia in sé, ci è parso fosse indispensabile tornare ad occuparsi delle origini di una storia che ha portato alla decostruzione di un approccio medicalizzante dei fenomeni sociali. È per questo che abbiamo deciso con mio nipote Franco, figlio di mio fratello Enrico che non c’è più da due anni, e assieme a mia figlia Silvia, di impegnarci assieme nella costruzione di un nuovo progetto.
Oltre a voi chi è stato coinvolto nell’Archivio?
Abbiamo ritenuto indispensabile coinvolgere in questo processo interlocutrici e interlocutori che per ragioni storiche, professionali e politiche hanno avuto e hanno una relazione concreta con questa storia. Ed è così che abbiamo costituto un comitato di garanti composto da: Giovanna Del Giudice, psichiatra e collaboratrice di Franco Basaglia fin dai primi anni Settanta, oggi presidente ConF Basaglia; Benedetto Saraceno, anche lui collaboratore di Basaglia e per molti anni direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’OMS; Leonardo Musci, archivista tra i fondatori di Memoria Srl che fin dall’inizio si è occupato del riordino del nostro archivio e Fabio Mugnaini, antropologo dell’Università di Siena, da molti anni impegnato in attività didattiche e di ricerca dedicate a memoria, espressività e performance culturali, di culture subalterne e marginali. Accanto a loro c’era anche Franco Rotelli, collaboratore di Basaglia a Trieste e divenuto dagli anni Ottanta uno dei pionieri della salute mentale territoriale, recentemente scomparso. Il progetto Archivio Basaglia nasce così all’interno un doppio binario che raggruppa i materiali di lavoro, parte della biblioteca e gli scritti di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, e si impegna allo stesso tempo nello sviluppo di una rete sociale che parte dalla memoria storica per diffondere le idee e svilupparne prospettive culturali.
Suo padre aveva già previsto una sistematizzazione per un eventuale futuro archivio?
Innanzitutto è necessario fare una premessa: parliamo di un’esperienza che ha visto un gruppo sempre più ampio di persone talmente impegnate nel processo in cui erano coinvolte da non avere il tempo di pensare se e come conservare. Bisogna immaginare le situazioni concrete attraverso le quali questa avventura divenuta teoria si è realizzata nella sua pratica. Se sei impegnato a tirar giù reti e inferriate che fino a quel momento avevano imprigionato uomini e donne negando loro la libertà di movimento, se ti occupi di abbattere muri a martellate che avevano costituito l’unico orizzonte davanti agli occhi di quegli uomini e di quelle donne, se lavori per recuperare vestiti che restituiscano corpo e dignità ai ricoverati, comodini per dare nuovamente un senso di sé a ognuno/a di loro, è evidente che è impossibile avere spazio e percezione di urgenza verso possibili azioni volte a far memoria. Per quanto riguarda poi lo specifico di mio padre, oltre ad essere in prima fila nel compimento di ognuno dei gesti a cui ho accennato, era anche in qualche modo l’antitesi di qualsiasi forma di sistematizzazione possibile. Non faceva che perdere ogni cosa: un foglietto di appunti, il resoconto di un’intervista, un appuntamento a cui recarsi, una mia partita di pallacanestro. Si dimenticava sempre, di tutto. Ogni sera svuotava le tasche dei pantaloni davanti a noi e mia mamma divideva i pezzi di carta da conservare e quelli da buttare. E spesso grazie a questo ultimo salvataggio, qualcosa sopravviveva e finiva in qualche cartellina.
Se dovesse definire la pratica della rivoluzione basagliana, quali sono gli elementi che la contraddistinguono nella sua efficacia?
Per vizio di formazione e mestiere, oltre ad essermi dedicata per anni alle donne e ai loro diritti, promuovendo attività per istituzioni pubbliche e associazioni sui diritti di cittadinanza, risponderei di primo acchito come se fossi di fronte a una platea di bambini e bambine. E direi che quella che chiamiamo rivoluzione basagliana – che in realtà è stata una rivoluzione possibile grazie a tutte le donne e a tutti gli uomini che in quegli anni hanno lavorato e lottato collettivamente -, è riuscita a mettere al centro le persone con le loro differenze dimostrando che siamo tutti diversi e per questo non dobbiamo avere paura l’uno dell’altra. Accanto a questo, l’elemento che penso sia centrale nella capacità di incidere di questa rivoluzione è nella forza di mettersi in ascolto della realtà e dei suoi bisogni. La teoria così è nata in relazione a una data pratica anziché imporsi su di essa prescindendo dalla voce delle persone. C’è poi il fatto di essere riusciti a dimostrare che “il re è nudo” vale a dire che l’orrore dell’istituzione manicomiale era lì da vedere. Sembra sia bastato indicarlo perché gli occhi di tutti non potessero più fare finta di non vederlo.
Eppure in questi anni sembra di assistere ad una perdita di consapevolezza, non crede?
Risale alla fine degli anni Settanta una delle affermazioni di mio padre tra le più citate nel tempo, in cui diceva “Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare”. Oggi non possiamo dire che i manicomi siano stati riaperti ma al tempo stesso non possiamo non notare quanto la tendenza alla patologizzazione di ogni espressione di disagio sommata al ritorno dell’uso della contenzione (che sia fisica o farmacologica) ci parli di un tempo più buio in cui i diritti si stanno affievolendo. Ed è per questo che trovo indispensabile ripartire, sempre con lo sguardo e l’orecchio teso al presente e alle sue forme, dall’eredità che questa rivoluzione ci ha lasciato tra le mani.
Rivoluzione psichiatrica, ma non solo si diceva, la società di oggi ha bisogno di recuperare un discorso che sia anche sociale e culturale come fu allora?
La rivoluzione che stiamo continuando a chiamare basagliana e che abbiamo detto essere stata di una moltitudine, ha dimostrato quanto il rispetto della persona con le sue complessità e contraddizioni sia al centro di qualunque rapporto terapeutico. Rapporto terapeutico che a sua volta è inserito in una visione di società complessa in cui il concetto di salute è più ampio, articolato ed esteso e coinvolge anche bisogni e desideri di tutti e di tutte. Oggi, nella situazione di degrado del welfare, ci stiamo sempre più allontanando da questi concetti. Dovremmo quindi tornare a confrontarci con la testimonianza di una pratica alternativa possibile capace di tenere conto dell’intreccio tra espressioni di natura culturale, politica, economica e anche esistenziale in una visione di salute pubblica come salute territoriale.
L’anno prossimo ricorre il centenario di Franco Basaglia, figlio dunque di un tempo lontano. Come è possibile tenere vivo il senso della sua azione e come tradurlo per la nostra contemporaneità?
Non credo che parliamo di una rivoluzione che per essere compresa debba essere resa attuale, trovo che la sua forza sia proprio nell’essere riusciti a mettere a fuoco alcuni punti saldi, di natura etica e politica, che stanno alla base di un rapporto con la realtà svincolato da elementi storici o geografici. Voglio dire: una persona legata non va bene mai, una persona mutilata non va bene mai, una persona violata, non va bene mai, una persona negata, non va bene mai, una persona rinchiusa, non va bene mai. Questo per dire che per mantenere in vita questa eredità non è necessario tradurla ma renderla accessibile.
Quali saranno i progetti che caratterizzeranno l’archivio? Sono previste iniziative per il centenario di Franco Basaglia?
Vorremmo riuscire ad aprire il nostro archivio a giovani ricercatrici e ricercatori, trasformando questo spazio in un luogo di incontro e laboratorio di progetti in cui far confluire anche nuovi linguaggi espressivi e creativi. A questo proposito, stiamo cercando di creare una rete di archivi audiovisivi diffusi in tutto il territorio dedicati al racconto in presa diretta della fine del manicomio in Italia, in modo da rendere più accessibile l’incontro con un pubblico anche più giovane.
Quale è stata la chiave scelta da sua madre per la riorganizzazione iniziale dell’Archivio?
C’è stata una prima fase della vita dell’Archivio – che ancora non era tale – di cui nessuno di noi a suo tempo ha avuto percezione, curata da mia madre che ha vissuto raccogliendo e inserendo in grandi faldoni la gran parte delle carte che venivano prodotte o che passavano da casa. Pur essendo effettivamente tutti troppo presi dal fare per potersi mettere a costruire memoria, lei compresa. C’è da dire anche che mia mamma, forse per carattere, ha sempre avuto questo istinto a non buttare mai niente. Quindi quando nel 2005, anno in cui è morta, ci siamo trovati ad inscatolare un’intera abitazione, abbiamo trovato un sacco di cose. Successivamente grazie al grande lavoro fatto con la supervisione di Leonardo Musci, alla luce della situazione di fatto in cui è stato trovato l’archivio, sembra di poter dire che Franca abbia puntato la sua attenzione principalmente su due parti: la corrispondenza e la produzione saggistica o di intervento politico-ideologico. Anche se in realtà quella che Franca aveva chiamato originariamente “Posta” comprendeva molto di più che lettere ricevute o minute di lettere scritte. La sezione includeva infatti in ordine cronologico tutti i documenti, senza separarli come corrispondenze intestate a singole persone. Un modo, forse, per disegnare una parabola temporale e invogliare di conseguenza a una lettura diacronica, senza isolare o mettere in primo piano nessuno dei tanti che parteciparono a un’impresa vissuta come collettiva.
E cosa caratterizza oggi l’archivio?
Ad oggi l’archivio contiene le lettere, gli appunti, le bozze dei libri, parte della biblioteca di Franco e Franca Ongaro e tutto il lavoro che lei, dopo la morte di mio padre, ha condotto per l’applicazione della legge 180 e attorno alle donne, i loro diritti e quelli dei tossico dipendenti con la sua attività di Senatrice nella Sinistra Indipendente. Possiamo dire che anche per questo archivio, come per molti altri, uno degli elementi più interessanti è costituito dalla corrispondenza, che rende tangibili le reti di relazioni che hanno caratterizzato la loro vita e in qualche modo ci consente di tracciare il cammino delle idee. La conservazione degli scritti prodotti è importante soprattutto per le bozze, per le prime stesure e per i ripensamenti.
Quale figura di intellettuali e di studiosi emerge dalle carte?
Trattandosi di un’impresa collettiva il primo elemento che salta all’occhio dalle testimonianze e dai documenti – e posso anche dire corrisponde perfettamente ai miei ricordi dall’infanzia in avanti -, è la presenza costante di un confronto con gli amici e compagni d’avventura. A partire dalle amicizie e collaborazioni nella clinica neurologica di Padova con Hrayr Terzian e Gian Pietro Dalla Barba, poi con il gruppo goriziano con Nico Casagrande, Antonio Slavich, Lucio Schittar, Agostino Pirella, Giovanni Jervis, Letizia Comba, Michele Risso, Ernesto Venturini, passando da quello indispensabile di Parma/Colorno che al centro ha avuto l’indimenticabile Mario Tommasini. Arrivando poi al gruppo triestino con Franco Rotelli, Giovanna Del Giudice, Maria Grazia Giannichedda, Luciano Carrino, Peppe dell’Acqua, Angelo Righetti, Giovanna Gallio, Mario Reali, Mario Novello, Edgardo Battiston, Chiara Strutti, Carmen Roll e tutti gli amici e le amiche che hanno fatto nascere a partire da quell’avventura la prima rete di esperienze di cooperazione e associazione. Accanto a questo, quel che emerge – ma non necessariamente solo dalle carte, anche ripercorrendo quell’epoca attraverso testimonianze editoriali, di cronaca, di reportage fotografici, documentaristici e mia – è un’atmosfera legata ai grandi e frequenti confronti dell’epoca: con figure come Jean-Paul Sartre, Noam Chomsky, Michel Foucault, Robert Castel, Vladimir Dedijer, Ronald Laing e tanti altri. Elenchi che oggi, oltre a dare percezione di come quei tempi fossero affollati e fitti di reti, ci fanno anche comprendere di quanto un’esperienza come questa sia stata, se non altro per quanto riguarda il livello pubblico dei grandi intellettuali, fortemente segnata da una presenza tendenzialmente maschile. Sicuramente è interessante a questo proposito il legame di complementarietà che c’è stato tra Franco e Franca: un uomo e una donna nati a metà degli anni venti che, nonostante l’epoca, sono riusciti a dare vita a un rapporto di collaborazione pratica e intellettuale – non priva di difficoltà e conflittualità – che ha segnato tutto il percorso che hanno condiviso. Ogni cosa è nata dalle loro incessanti discussioni e da confronti che potevano durare anche intere giornate (notti comprese). E posso dire che sicuramente il ruolo di Franca nella scrittura di ogni testo – anche in quelli in cui prevale la presenza formale di Franco – è stato decisivo, anche se in virtù dei tempi non ha avuto la rilevanza che ha avuto nella realtà dei fatti.
L’archivio può dunque trasformarsi da una forma di eredità ad una forma di germoglio per il futuro?