Q uando ci si occupa di tematiche di genere, si tende a concentrarsi principalmente (e comprensibilmente) sui gruppi sociali che vengono oppressi dalle società patriarcali ed eteronormative. Tuttavia, anche identificandosi come uomini, può essere utile focalizzare l’attenzione, in modo critico, sul gruppo sociale avvantaggiato, per cercare di fare chiarezza sul rapporto tra uomini, patriarcato e femminismo.
Anche perché appartenere a un gruppo privilegiato non significa per forza essere vincitori. I grandi errori della narrazione “mainstream” del rapporto tra uomini e femminismo sono due: il primo consiste nel credere che gli uomini non beneficerebbero di un movimento femminista intersezionale e internazionale; il secondo si forma dall’assunzione che potrebbero beneficiarne senza dover contemporaneamente ripensare a fondo la maschilità e la socializzazione maschile, e senza identificare e rinunciare ai privilegi che ne conseguono.
Vediamo il primo punto. Alla maggioranza degli uomini serve il femminismo perché, nonostante venga loro diagnosticata una depressione clinica la metà delle volte rispetto alle donne, gli uomini si tolgono la vita quasi quattro volte più spesso. Gli uomini hanno un’aspettativa di vita di 2-8 anni inferiore a quella delle donne e sono più a rischio di essere vittime di crimini violenti. Nei tribunali a parità di condizioni spesso ricevono condanne più severe, e qui vi è ancora la propensione, dopo i divorzi, ad affidare i e le figlie alle madri. Inoltre, malgrado alcuni miglioramenti parziali, stringono ancora meno amicizie strette (si veda anche Bell) e si aspettano, offrono e trovano meno intimità e supporto emotivo rispetto alle amicizie tra donne (come sostengono anche Way e O’Neil). Di fronte ai drammi e ai limiti della vita si dimostrano meno psicologicamente resilienti e meno preparati ad affrontare le avversità; finiscono ad esempio per avere più difficoltà nella ricerca e nel mantenimento di relazioni supportive, o per soffrire di più sintomi depressivi alla perdita del lavoro rispetto alle donne. A scuola, le persone a cui è stato assegnato il genere maschile alla nascita e che appartengono alla comunità LGBTQ+, oppure coloro che violano le norme di mascolinità, sono ad altissimo rischio di subire violenza fisica e verbale. E, sempre a scuola, i ragazzi raggiungono spesso risultati leggermente inferiori a quelli delle ragazze.
Nelle società patriarcali anche molti uomini soffrono sistematicamente di specifiche problematiche legate al genere. Accusare genericamente la società, o, peggio, le donne, o le femministe sarebbe un grosso errore che non aiuterebbe a risolvere il problema. La causa dei problemi degli uomini nasce dall’immaginario con cui vengono socializzati e che alimentano quotidianamente, spaventati dall’idea che sia l’unico possibile. Cresciuti con l’immaginario dell’uomo invulnerabile, dominante, anaffettivo e che non deve chiedere mai aiuto, molti si sforzano di nascondere i sintomi depressivi o li manifestano in maniera atipica, rendendo più difficile per le e i professionisti determinare la presenza di un disturbo depressivo, aumentando quindi il rischio suicidario. Per lo stesso imperativo di (presunta) invulnerabilità, rispetto alle donne sotto-utilizzano servizi di assistenza sanitaria preventiva, i servizi di salute fisica e salute mentale, convinti erroneamente che non servano loro. L’aderenza alle norme sociali di maschilità tradizionale aumenta la probabilità in di attuare vari comportamenti che pongono a rischio la propria (e altrui) salute, come bere alcolici in abbondanza, fumare, fare uso di violenza e ignorare i consigli medici di stili di vita più salutari.
Anche la maggior sofferenza degli uomini per la perdita del lavoro è molto probabilmente causata da questo immaginario patriarcale, secondo il quale lo scopo principale del ruolo di uomo-padre tradizionale è quello di sostenere economicamente la propria famiglia. Un imperativo ben distante dagli aspetti relazionali ed emotivi: anche oggi le madri compiono più lavoro domestico e di cura dei e delle figlie, e ciò, misto all’immaginario patriarcale della donna “intrinsecamente mamma”, spiega coerentemente la preferenza sistematica dei tribunali per l’affido materno.
Appartenere a un gruppo privilegiato non significa per forza essere vincitori.
È lecito assumere che lo stesso immaginario sia alla base delle sentenze a volte più severe per gli uomini, visto che persino i peggiori risultati scolastici dei ragazzi potrebbero essere riconducibili agli assunti collettivi di genere: gli uomini hanno finito per convincere tutte e tutti così profondamente di essere il genere più autorevole, pericoloso e amante del rischio, che non riescono a liberarsi del timore e delle aspettative verso le proprie azioni neppure quando vorrebbero solo raggiungere migliori risultati scolastici o ricevere condanne più miti. In generale, decenni di ricerche hanno dimostrato che i restrittivi imperativi maschili possono danneggiare in molti modi gli uomini, ad esempio attraverso sintomi depressivi, ansia, bassa autostima, colpa e vergogna.
La maschilità è in grado di peggiorare il benessere fisico e mentale degli uomini, e quello di chi sta loro accanto, anche in altri modi: la rigida aderenza agli ideali di maschilità tradizionale è associata a sintomi depressivi della propria partner, a conflitti nel bilanciamento tra doveri familiari e lavorativi, e a bassi livelli di intimità, soddisfazione e benessere relazionale. Al contrario, le persone in una relazione sentimentale con un/a partner sensibile alle tematiche di genere e alla decostruzione degli stereotipi binari e patriarcali (a prescindere dai propri valori politici) descrivono tale relazione come di qualità migliore, più stabile e sessualmente più soddisfacente di chi sta con partner non femministi/e.
Da decenni è inoltre stato dimostrato il notevole ruolo del supporto emotivo-sociale sulla salute fisica e mentale: il semplice atto di confidarsi in intimità, ad esempio, è associato ad un migliore funzionamento immunitario. È dunque molto grave il ruolo delle norme tradizionali di genere nel limitare i benefici psico-fisiologici delle amicizie maschili, ad esempio inibendo l’espressione di vulnerabilità o attraverso una solo sporadica condivisione emotiva (si veda anche O’Neil e Garfield). Addirittura una differenza importante tra chi si autodefinisce “solo/a” e chi no, è che i e le prime passano meno tempo con le donne rispetto ai e alle seconde. Fortunatamente, al calare dell’omofobia (un tema centrale della maschilità tradizionale), cresce l’intimità nelle amicizie maschili, a riprova del fatto che i problemi degli uomini sono fortemente legati anche ai problemi della comunità LGBTQ+, e non solo a quelli delle donne. L’immaginario patriarcale dell’uomo invulnerabile nuoce a molti anche indirizzandoli verso mestieri in cui si rischia la vita: gli uomini compongono la maggioranza delle morti per incidenti sul lavoro. Considerato in aggiunta che l’adozione di ideali maschili tradizionali si associa a comportamenti meno efficaci nel rispondere allo stress e a maggior reattività cardio-vascolare, risulta inequivocabile il ruolo della maschilità nel determinare almeno una parte della differenza di aspettativa di vita tra uomini e donne.
E i crimini violenti che subiscono gli uomini? La stragrande maggioranza di chi compie crimini violenti, a sfondo sessuale e/o all’interno di una relazione intima è composta da uomini, così come sono più spesso loro a perpetrare violenza omofoba e transfobica. Questa violenza maschile possiede però un pattern ben specifico. L’aderenza a ideali di iper/mascolinità tradizionale, la credenza negli stereotipi di genere a livello individuale e la diffusione di questi stereotipi a livello sociale si correlano con il rischio da parte degli uomini di commettere e/o giustificare diversi tipi di violenza: la violenza contro altri uomini, le molestie sessuali, la violenza fisica e quella verbale contro le donne in generale, contro la propria partner e contro membri della comunità LGBTQ+. A tal riguardo, è significativo notare come i sostenitori dei movimenti “per i diritti maschili”, o M.R.A. (Men Rights Activists), non parlino mai degli uomini della comunità LGBTQ+, nonostante questi ultimi siano molto più rischio di subire violenza e contemplare il suicidio rispetto agli uomini etero e cis-genere. A dimostrazione che questi “movimenti maschili” non nutrono un interesse reale per il benessere psicofisico degli uomini: sono solamente interessati a salvaguardare l’ideale di virilità di cui sono fanaticamente innamorati.
I problemi degli uomini sono fortemente legati anche ai problemi della comunità LGBTQ+, e non solo a quelli delle donne.
La letteratura socio-psicologica lo dimostra ormai da decenni: gli uomini devono decostruire molto di ciò che è stato insegnato loro, perché servono nuovi ideali di maschilità, nuovi immaginari, nuovi comportamenti e nuove credenze.
Eppure ci si può decostruire davvero solo ricordando che questo processo ha un inizio ma non una fine, in quanto necessita quotidianamente di apertura mentale, flessibilità e consapevolezza, e che tutti gli uomini dovranno farlo, assieme in quanto gruppo sociale, visto che molti dei problemi degli uomini sono causati da altri uomini. Oggi per sé e per le persone con cui si entra in contatto, e domani per offrire un’alternativa alle future generazioni di maschi, affinché non si debba più convivere con gli imperativi che rovinano troppe vite.
Ci si potrebbe domandare, da uomini, se non sarebbe possibile focalizzarsi solo sui problemi degli uomini senza lavorare sulla rappresentazione, sui ruoli e sulla condizione delle donne?” A prescindere dalla dubbia eticità della domanda, la risposta è “no”. La socializzazione dei maschi non si verifica in una bolla separata dal resto del mondo sociale: maschilità e femminilità si costruiscono e hanno senso di esistere solo l’una in relazione all’altra, esattamente come i privilegio di uno non può che essere l’oppressione dell’altra. Come descritto egregiamente da Gianini Belotti e Lipperini l’educazione individuale e sociale di maschi e femmine si basa sull’assunzione di una differenza radicale tra due sessi.
Oltre ai problemi maschili descritti sopra, infatti, ovunque sono diffusi anche i privilegi maschili: in tutto il mondo gli uomini possiedono più potere economico, sociale, militare, religioso e simbolico, e maggior prestigio rispetto alle donne. Hanno maggiore accesso al mondo del lavoro e dell’istruzione, guadagnano di più, possiedono più terreni e beni immobili; contribuiscono al lavoro di cura non pagato in maniera sproporzionatamente bassa rispetto alle donne, e subiscono violenze specifiche come quella a sfondo sessuale in quantità minima rispetto alle donne. Nonostante alcuni grandi passi avanti, in nessuna nazione al mondo vige una reale parità di potere sociale o economico: è sufficiente nominare il gender pay gap o i diffusi bias cognitivi che influenzano quotidianamente ogni aspetto delle nostre vite: dal lavoro di cura a quello in ufficio, dalle relazioni sentimentali a quelle familiari.
Non è un caso che privilegi e disagi maschili siano ovunque co-presenti in misura proporzionale, poiché sono in intrinseca e indissolubile relazione di complementarietà, essendo entrambi il risultato della stessa causa.
Per comprendere meglio questa relazione di complementarietà, e dunque capire perché non possiamo risolvere i problemi maschili senza rinunciare ai relativi privilegi, è utile esporre brevemente i due elementi strutturali legati al genere che sono stati studiati globalmente; due elementi in grado da soli di produrre gli specifici vantaggi e disagi del gruppo sociale degli uomini.
L’educazione individuale e sociale di maschi e femmine si basa sull’assunzione di una differenza radicale tra due sessi.
Il primo è l’immaginario collettivo dal quale le società attingono per compiere ogni scelta individuale, sociale e politica. In almeno 28 nazioni da cinque continenti diversi è stata rilevata una simile differenza radicale nella rappresentazione dei generi: in linea di massima, ovunque gli uomini rispetto alle donne sono ritenuti più competenti, autorevoli, coraggiosi, indipendenti, forti, assertivi, aggressivi e focalizzati sul successo personale. Le donne, invece, rispetto agli uomini sono percepite più emotive, calorose, gentili, sensibili, empatiche ed improntate alla relazione e alla cura delle altre persone. In sintesi, al mondo questi due generi sono pensati come in opposta ambivalenza: gli uomini competenti ma freddi, e le donne calde ma meno capaci. Una rappresentazione talmente radicata da sopravvivere inconsapevolmente anche quando questi stereotipi di genere vengono reputati falsi.
Il secondo elemento che struttura globalmente le società è la suddivisione asimmetrica del potere socio-economico e dei ruoli sociali tra due generi.
Visto che tale disparità di potere socio-economico è già stata sintetizzata sopra, viene riassunta qui solo la segregazione di ruolo. In tutto il mondo gli uomini ricoprono molto più spesso ruoli decisionali politici e aziendali. Le donne occupano spropositatamente il ruolo di care-giver di infanti e genitori, e sono ancora loro che, in caso di necessità, rinunciano alla propria carriera per badare al nucleo familiare. Inoltre, il lavoro (di servizi domestici) non retribuito appartiene in netta prevalenza alle donne, le quali compongono la maggioranza delle persone disoccupate. In generale, i mestieri associati alla maschilità godono di stipendi migliori e di maggior prestigio.
È quindi fondamentale sottolineare uno specifico aspetto di questi elementi strutturali. Un numero sostanzioso di studi correlazionali da molte nazioni diverse (ma si veda anche Yodanis, Brandt, Senden e Archer) ed esperimenti di cognizione sociale (e Conway), sorretti dalla solida teoria del ruolo sociale, dimostra una stretta influenza bidirezionale tra la suddivisione asimmetrica di ruoli lavorativi, potere e prestigio sulla base del genere, e la diffusione dell’immaginario sociale patriarcale (ambivalente nell’attribuzione di competenza e calore). In sintesi, questo avviene per un insieme di motivi: il genere è oggi in assoluto la categoria sociale più saliente, e produce l’unica coppia di gruppi sociali in asimmetria di potere che vive ovunque in interdipendenza reciproca; calore e competenza costituiscono la principale attribuzione della percezione sociale umana, probabilmente per utilità evoluzionistica; il bisogno degli esseri umani di spiegarsi il proprio mondo sociale (e trarne inferenze) sembra essere innato; e vi sono molteplici vantaggi (sociali e individuali) nel soddisfare le aspettative della società, come lo sviluppo di abilità e comportamenti necessari ai ruoli tipici del proprio gruppo sociale. Da questi fenomeni non può che conseguire una forte influenza reciproca tra l’immaginario sociale patriarcale (gli stereotipi di genere),e i ruoli e l’asimmetria di potere tra i generi.
Tutto ciò significa che se si vive in società in cui gli uomini hanno maggiore potere economico e sociale, si attribuirà loro maggiore competenza e minor calore, e si attribuirà minor competenza e maggior calore alle donne. Di conseguenza, si costruirà (e manterrà) un mondo sociale in cui le persone hanno sistematicamente problemi relativi ai temi assenti da questo immaginario: gli uomini avranno difficoltà relazionali ed emotive, e le donne soffriranno la mancanza di potere sociale ed economico. Viceversa, quanto più si sfrutterà un immaginario in cui gli uomini possiedono maggiore competenza e minor calore, e in cui le donne hanno più calore e minor competenza, più si produrrà una società in cui i primi hanno maggiore potere delle seconde. L’aspetto positivo è che tramite attività politiche collettive è possibile rovesciare questa relazione bidirezionale: lavorare per una suddivisione socio-economica più equa tra i generi aiuterà a liberare l’intera società dall’immaginario patriarcale (retrogrado e disfunzionale) che la soffoca, che a sua volta avvicinerà ad un’uguaglianza di prestigio e potere tra i generi, che di nuovo alleggerirà dalle prescrizioni di genere… e così ancora, in un circolo virtuoso potenzialmente illimitato.
Lavorare per una suddivisione socio-economica più equa tra i generi aiuterà a liberare l’intera società dall’immaginario patriarcale.
I due elementi strutturali onnipresenti citati, dunque, potrebbero costituire il minimo comun divisore patriarcale, la cui presenza col tempo è sufficiente per portare i generi su strade differenti, ciascuna lastricata di problemi specifici al genere. Un seme condiviso globalmente che si impone su ogni essere umano fin dalla nascita, ed è poi in grado di svilupparsi attraverso una serie di dinamiche sociali e individuali (a volte impercettibili), ciascuna specifica per cultura e tempo. Aspettative, rinforzi, punizioni, feedback, gender gap valoriali, bias attentivi e mnestici, stereotipi descrittivi, prescrittivi e proscrittivi (una marea non non sintetizzabile meglio di come ha fatto il fondamentale The Social Psychology of Gender di Rudman & Glick) finiscono quindi per costruire e mantenere la realtà sociale patriarcale contemporanea e gli specifici problemi che attanagliano ciascun genere.
In conclusione, il miglioramento delle vite della maggioranza degli uomini potrà avvenire solo favorendo il processo di emancipazione femminista, perché l’oppressione delle donne (ovvero i privilegi degli uomini come classe sociale) è complementare ai disagi maschili, essendo esse due facce della stessa medaglia: i secondi sono il costo che molti pagano per permettere a tutti gli uomini vantaggi sulle donne (e sugli uomini non etero e cis-genere). In tutto il mondo, per giustificare i privilegi di potere e ruolo del proprio gruppo sociale, gli uomini si sono descritti come più forti, capaci e freddi delle donne. Le donne ne hanno sempre sofferto (spesso violentemente) per prime, e oggi si possono analizzare anche le conseguenze sulla mente, sul fisico e sulle relazioni degli uomini. L’immagine dei tanti morti, feriti e traumatizzati dalle guerre, e dei pochi che storicamente ci si sono sempre arricchiti sopra, è emblematica e suggestiva: per permettere ad un numero contenuto di uomini di vincere al gioco del patriarcato (oggi nella violenta seppur ben vestita versione capitalista), abbiamo bisogno che tanti altri uomini si sacrifichino perdendo, e che il numero più ampio possibile di donne (e uomini non etero o cis-genere) nemmeno possa partecipare a questo gioco.
Per risolvere i problemi, però, bisogna prima nominarli correttamente, poiché è impossibile cambiare le cose senza usare il loro vero nome. Non “il sessismo”, bensì la virilità, la maschilità, il patriarcato. Strutture di potere e immaginari sociali, modelli di pensiero, comportamento e relazione profondamente radicati nella socializzazione maschile. Finché non si comincerà un processo collettivo di decostruzione della socializzazione patriarcale maschile, il quale passa inevitabilmente dalla presa di consapevolezza di ogni ruolo, immaginario, privilegio e oppressione di genere, gli uomini vivranno con uno svantaggio relativo alle emozioni e capacità relazionali, e le donne e la comunità LGBTQ+ resteranno oppresse sistemicamente per potere economico e sociale.