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uanto è cambiato il nostro lessico in conseguenza dell’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia, l’Europa e il mondo intero negli ultimi mesi? Lasciando ai virologi il dibattito sulle eventuali mutazioni del virus Sars-CoV-2, ai linguisti non resta che interrogarsi su quanto il coronavirus abbia contribuito al mutamento linguistico nel breve – anzi brevissimo – periodo.
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«La neologia racconta la storia di una società e della sua lingua»: mai come in questi ultimi mesi non possiamo che convenire con Jean Pruvost e Jean-François Sablayrolles (2003, p. 29), tante sono le parole che raccontano e racconteranno le lunghe settimane di emergenza sanitaria, economica e sociale. Soprattutto il periodo dall’individuazione dei primi casi di infezione virale nell’uomo alla scoperta dei primi focolai localizzati fino alla presa di coscienza della presenza diffusa e della rapidità di trasmissione del virus sul territorio italiano, alla dichiarazione dello stato di pandemia da parte dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) e all’entrata in vigore di misure sempre più restrittive per il contenimento e la gestione dell’emergenza coincide con una fase di notevole innovatività lessicale. Se «un neologismo si forma principalmente per il bisogno di denominare un nuovo oggetto o un nuovo concetto» (Adamo, Della Valle, 2017, p. 7), gli sviluppi drammatici della pandemia hanno come riflesso linguistico un frenetico proliferare di neologismi in seguito alla ricerca per certi versi affannosa di denominazioni per il nuovo virus responsabile dell’epidemia, la malattia che ne deriva (dal termine specialistico Covid-19 alla tragica familiarità di covid), i provvedimenti preposti a contrastarla, visti nel loro insieme (il tanto discusso distanziamento sociale) o singolarmente (con tanto di “querelle lessicale” tra l’anglismo lockdown e il confinamento nostrano), cui si aggiunge una miriade di parole chiave di formazione non recente, ma tornate tristemente in auge (prima fra tutte quarantena). Lasciandoci per il momento alle spalle occasionalismi, neologismi e parole chiave legati all’emergere e al diffondersi dell’epidemia, questo capitolo si sofferma piuttosto sulla costruzione linguistica del periodo di “convivenza con il virus”, quello caratterizzato dal progressivo decremento dell’impatto della pandemia e dall’alleggerimento delle restrizioni degli spostamenti e della vita sociale e commerciale.
La fase due
Nella conferenza stampa del primo aprile 2020 il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte annuncia la “prospettiva di entrare nella fase due” definendola così: «La fase due è quella di convivenza col virus, di adottare delle misure che pian piano portano all’allentamento [delle restrizioni, ndr] per poi entrare nella fase tre che è quella dell’uscita dall’emergenza». Ci pensa poi la stampa a illustrare le modalità di questa “convivenza col virus”: «Questo significherà che tutto quello che gradatamente riaprirà, non sarà come prima. Bisognerà rispettare le distanze di sicurezza nei posti di lavoro, negli uffici, negli esercizi commerciali, sui bus, i tram, in metropolitana. Bisognerà essere tutti provvisti di mascherine. Un lavoro di regolamentazione immane che il governo deve fare proprio in questi dieci giorni di proroga delle chiusure. Solo dopo, ed è ancora impossibile capire quando, ci sarà una fase tre: il ritorno alla vita normale» (Ancora a casa, 2 aprile 2020, “la Repubblica”).
Fase due non è l’ennesimo neologismo legato al discorso sul coronavirus, ma una locuzione di stampo giornalistico tutt’altro che recente (il Vocabolario Treccani ne ricostruisce la prima attestazione citando un articolo di economia pubblicato sul “Corriere della Sera” nel lontano 1973), utilizzata per indicare il periodo di sviluppo di un determinato processo una volta superatane la fase critica. La storia mediatica del dibattito pubblico italiano è punteggiata di “fasi due”, come dimostra una rapida ricerca, limitata ai soli anni Ottanta, nell’archivio online del quotidiano “la Repubblica”, in cui figurano almeno una “fase-due di politica economica, dopo la stagione del rigore”, la “fase due del piano antitraffico”, la “fase due della privatizzazione di Mediobanca”, la “fase due della riforma ministeriale”, la “fase due dell’integrazione monetaria”, la “fase due del riassetto dell’Ambro-veneto”, la “fase due del nuovo corso del PCI”, la “fase due del programma di rilascio dei detenuti”, la “fase due dell’aumento del costo del denaro”, oltre a diverse formulazioni più generiche (“fase due della manovra”, “dell’operazione” ecc.).
A ben guardare anche il discorso sul coronavirus di cosiddette “fasi due” ne ha già vissute parecchie: dall’inizio della crisi la stampa ha usato più volte quest’espressione in contesti diversi, parlando di “fase due del sostegno economico” a proposito di risorse straordinarie da stanziare a favore delle imprese localizzate nella zona rossa del lombardo-veneto, di “fase due del piano sanitario” nel senso della riorganizzazione degli ospedali in previsione dell’incremento esponenziale dei ricoveri, di “fase due dell’insegnamento a distanza” (per passare dalle prime lezioni di ripasso all’avanzamento con il programma didattico), di “fase due dell’assistenza” in quanto presa in carico dei pazienti al proprio domicilio ecc. Eppure nel caso del rallentamento della trasmissione del virus e dell’alleggerimento delle restrizioni l’espressione fase due, certo anche in ragione delle dimensioni inaudite del processo a cui si riferisce, sembra non aver bisogno di specificazioni per tradursi in una sorta di fase due “tout court”: «Dal 4 maggio inizia la fase due, ma le Regioni la affrontano in ordine sparso» (3 maggio 2020, “Corriere della Sera”); «Biglietti nominali e mascherine a bordo: ecco la fase 2 sui treni Trenitalia» (2 maggio 2020, “la Repubblica”); «Fase due, ecco i piani per riaprire le scuole a giugno» (2 maggio 2020, “Corriere della Sera”); «Fase Due: De Luca ordina la libera uscita» (2 maggio 2020, “Il Mattino”); «Il governatore Zingaretti firma l’ordinanza sui trasporti per la fase 2 nel Lazio» (1 maggio 2020, “La Stampa”); «Come si conterrà il contagio nella fase due» (30 aprile 2020, “la Repubblica”), per citare solo qualche esempio. Pur trattandosi in effetti di una formula giornalistica, nel discorso sul coronavirus fase due ha l’apparenza del tecnicismo, complice la coincidenza con la tradizionale divisione in fasi delle ondate pandemiche nella scienza epidemiologica. Nella descrizione delle pandemie influenzali si distinguono infatti quattro fasi (fase interpandemica, fase di allerta, fase pandemica e fase di transizione) per poi individuare, all’interno del periodo pandemico vero e proprio, quattro livelli, da un livello zero di «assenza di casi nella popolazione del paese» al livello tre di una possibile «nuova ondata» (Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale, 2006, p. 9, online sul sito del ministero della Salute). Per quanto l’Organizzazione mondiale della sanità abbia nel frattempo (2017) modificato le proprie linee guida spostando l’accento dalla ripartizione in fasi e livelli a una visione dello sviluppo pandemico come continuum da un periodo interpandemico al successivo (WHO 2017), l’eco di un “livello 2” coincidente con la “fase di decremento” della pandemia contribuisce a fare della fase due del linguaggio giornalistico comune una sorta di “fase due per eccellenza”, LA fase due della pandemia di SARS-CoV-2.
Il déconfinement dei francesi
Abbiamo più volte sottolineato in questo volume come la portata mondiale della pandemia da Covid-19 implichi la formazione di una sorta di “lessico globale del coronavirus” nel senso della necessità di denominare in maniera quasi sincronica oggetti e concetti analoghi in lingue diverse. Come già per il virus, la malattia e le misure di contenimento, anche il decremento dell’impatto epidemico avviene in modo quasi parallelo in gran parte dei paesi coinvolti, che si ritrovano quindi più o meno all’unisono a confrontarsi ciascuno con la propria “fase due”. Se l’Italia sceglie la via della locuzione giornalistica simil-specialistica, in Francia l’inizio della fase due coincide con la creazione di un neologismo ad hoc, il termine déconfinement. Il 31 marzo 2020, un giorno prima della conferenza stampa in cui Conte annuncia la “prospettiva di una fase due”, il suo collega d’oltralpe Edouard Philippe, primo ministro francese allora in carica, pronuncia per la prima volta davanti all’Assemblée Nationale (la camera principale del Parlamento francese) il termine déconfinement, già lanciato come hashtag su Twitter qualche giorno prima dal leader del movimento di sinistra radicale La France insoumise Jean-Luc Mélenchon, nonché utilizzato dal ministro della Salute Olivier Véran in un’intervista televisiva il 27 marzo. Se per denominare l’insieme di misure di limitazione dei contatti sociali utili a contrastare la diffusione dell’epidemia i francesi hanno riattualizzato un termine dal sapore antico, il latinismo confinement (“confinamento”, cfr. TLFi), utilizzato in passato per indicare l’isolamento di un prigioniero (in testi medievali) o la privazione della libertà in contesti monastici (si pensi al romanzo La Religieuse – La monaca – di Diderot), per l’alleggerimento delle stesse misure trionfa la via dell’innovazione neologica. Il neologismo déconfinement (“deconfinamento”), in cui il prefisso reversativo dé-esprime il rovesciamento del significato espresso dalla base (cioè la cessazione del confinement), è entrato velocemente nell’uso comune figurando anche in locuzioni come plan national de déconfinement “piano nazionale di deconfinamento”, e il premier Edouard Philippe nel suo discorso del 28 aprile all’Assemblea nazionale lo ha trasformato addirittura in un verbo: «Se gli indici non sono quelli previsti, non deconfineremo l’11 maggio, o lo faremo in maniera più ristretta» (si les indicateurs ne sont pas au rendez-vous, nous ne déconfinerons pas le 11 mai, ou nous le ferons plus strictement).
Se la neologia risponde al bisogno di denominare un referente inedito, l’invenzione di una parola nuova per indicare la fine – sia pur graduale – delle misure di “confinamento” è un modo efficace per sottolineare anche linguisticamente la portata inaudita dei processi messi in moto dall’epidemia e dal suo contenimento e per costruire anche dal punto di vista lessicale un “nuovo” inizio.
Verso il corona-exit
Anche in Germania oltre alla locuzione generica Lockerungen “allentamenti” (anche nella forma più specifica Corona-Lockerungen), frequente tanto nella stampa quanto nel linguaggio comune, il discorso giornalistico ha coniato un’espressione ad hoc per denominare il processo di graduale ripresa delle attività sociali e produttive: il composto Corona-Exit e la sua variante ellittica Exit. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria il costituente Corona (accorciamento di Coronavirus) è già entrato in innumerevoli occasionalismi (come Coronaparty, Coronaferien, Coronakrise ecc., rispettivamente “festa in barba alle misure contro il coronavirus”, “vacanze scolastiche forzate a causa del coronavirus”, “crisi provocata dal coronavirus”). Meno trasparente è il valore semantico del costituente Exit, anglismo da ricondurre non tanto – o non solo – al sostantivo inglese exit “uscita”, quanto piuttosto alla polirematica exit strategy nel senso di una strategia utile per uscire da una situazione insidiosa, di solito in campo militare, politico o economico. Se anche nel discorso pubblico italiano si ritrovano alcune attestazioni dell’anglismo exit strategy in relazione al coronavirus (soprattutto rispetto all’UE, anzi è proprio il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni a usare questa locuzione in un tweet del 18 aprile: «Non ci sono dieci, cento, mille exit strategy»), l’originalità del tedesco sta nel rimodulare per accorciamento e composizione la locuzione inglese attualizzandola nello specifico contesto del discorso sul coronavirus. Nel tedesco contemporaneo il prestito Exit e la locuzione ibrida Corona-Exit sono quindi denominazioni sinonimiche che designano la strategia prudente da mettere in atto per uscire gradualmente dall’emergenza da Covid-19 (e non a caso l’aggettivo che spesso si accompagna al neologismo è behutsam “prudente”). Alla base del successo mediatico del neologismo (Corona-)Exit si può ipotizzare l’influenza della parola macedonia Brexit che ha probabilmente contribuito a popolarizzare l’anglismo exit, per quanto il rapporto semantico tra i costituenti di Brexit (“Britain + exit” = uscita della Gran Bretagna dall’UE) sia inverso rispetto a quello su cui si basa Corona-Exit (è la Germania a uscire dall’emergenza coronavirus e non viceversa).
Alla ricerca della normalità perduta
A differenza del francese e del tedesco, il discorso pubblico italiano non ha coniato una parola per definire in modo univoco ed esclusivo il processo di allentamento delle misure adottate dal governo per la gestione dell’emergenza epidemiologica e di graduale ripresa delle attività sociali e produttive. Si registrano piuttosto diverse parole chiave abbastanza generiche: oltre alla già citata fase due, si notino almeno riapertura e soprattutto ripartenza («Le Regioni si presentano al via della ripartenza con regole e divieti variegati», 3 maggio 2020, “Corriere della Sera”; «Un gruppo di professori universitari ed esperti chiede che la ripartenza non dimentichi la cura del territorio», 3 maggio 2020, “la Repubblica”), nonché i rispettivi verbi riaprire («L’Emilia riapre. Ecco come», 3 maggio 2020, “la Repubblica”) e ripartire («Fase due a Milano, tra voglia di ripartire e paura», 3 maggio 2020, “Corriere della Sera”). L’insistenza su parole formate con il prefisso di valore reingressivo ri-(riapertura, ripartenza) sottolinea la centralità discorsiva di significati reintegrativi nel senso del ritorno a uno stato precedente a quello (di chiusura, di blocco) causato dalla diffusione dell’epidemia. Un’ulteriore parola chiave del discorso sulla fase due è normalità: «Ora è il momento di ricominciare a provare sul campo una prima ipotesi di – cauto – ritorno a quella parola, “normalità”, che (lo abbiamo vissuto collettivamente sulla nostra pelle) ci appare ora tanto straordinaria e preziosa quanto prima sembrava ordinaria, quasi scontata» (3 maggio 2020, “La Nazione”).
Una rapida analisi delle co-occorrenze di normalità nel corpus a stampa relativo alla sola giornata del 3 maggio 2020 (la “vigilia” della fase due) allestito in base alla banca dati Nexis Uni e all’archivio di “la Repubblica” (per un totale di 114 articoli di quotidiani) mette in evidenza non solo l’attesa per l’imminente ritorno alla normalità e la consapevolezza della necessità di riconquistarla gradualmente (piccoli passi verso la normalità, cauto rientro alla normalità, primo cammino verso la normalità), ma anche la voglia irresistibile di normalità (anche c’è tanta voglia di normalità, affamati di normalità, auspicio di normalità, è bellissima la normalità) e soprattutto la percezione della normalità come qualcosa di lontano, appartenente al passato (ricerca della normalità perduta, scene di normalità perduta) e assaporabile solo con il contagocce (embrione di normalità, parvenza di normalità, briciolo di normalità, pizzico di normalità, assaggio di normalità).
E così, neologismi a parte, è la risemantizzazione del concetto di normalità l’elemento comune tra il discorso italiano della fase due e quelli in corso parallelamente negli altri paesi europei. Non è un caso che nuova normalità, una delle collocazioni più frequenti nella stampa italiana, ricorra identica nelle parole del ministro delle Finanze e vicecancelliere tedesco Olaf Scholz (Wir müssen eine neue Normalität entwickeln «Dobbiamo sviluppare una nuova normalità», conferenza stampa del 17 aprile 2020), nella stampa francese (c’est une nouvelle normalité qui se banalise de plus en plus «è una nuova normalità che diventa sempre più banale», 2 maggio 2020, “La Tribune”) o anche nel piano di ripresa messo a punto dal governo spagnolo (Plan de Transición hacia una Nueva Normalidad “Piano di transizione verso una nuova normalità”).
Un estratto da La lingua infetta. L’italiano della pandemia di Daniela Pietrini (Treccani Libri, 2021).
Treccani è l’editore di questa rivista.