Matteo De Giuli è scrittore e editor. È stato senior editor del Tascabile. Ha collaborato con Treccani, Radio3 e Rai3. Ha scritto "Buoni a nulla. Fondamenti di una teoria dell'ozio" (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, "MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)" (Not, NERO editions, 2021).
I
n Zona, qualche anno fa, Geoff Dyer dissezionava Stalker di Andrej Tarkovskij ri-raccontandolo una scena per volta. “Ci sono poche cose al mondo che odio di più di quando qualcuno, nel tentativo di convincermi a vedere un film, si mette a riassumerlo, a spiegare la trama”, scriveva, autodenunciandosi, mentre lo ricostruiva su carta.
Il film racconta il viaggio enigmatico di tre uomini che attraversano una regione industriale abbandonata per arrivare nella misteriosa “zona”, in una stanza che ha il potere di avverare i desideri di chi la visita. Dyer lo riportava, arricchendo il resoconto con aneddoti e riflessioni e qualche ricordo, e citazioni di altri film e di altri libri, e dal momento che Stalker è notoriamente un’opera lenta e dilatata, per alcuni insostenibilmente lunga, arrivato a due terzi si chiedeva perché sprecare “così tanto tempo ed energia”, così tante “deviazioni inutili, ostacoli irritanti, test e pretesti autoimposti” in quel cammino incerto e senza fine. “Ti chiedi se non avresti fatto meglio a riassumere un film diverso, Dove osano le aquile, per esempio”. Alla fine, a distanza di pochi anni, ha fatto pure questo, e così il suo ultimo libro tradotto in Italia, Fuga (il Saggiatore), è il racconto, una scena per volta, di Dove osano le aquile.
Dove osano le aquile (1969, diretto da Brian G. Hutton) è il nadir di Stalker. È velocissimo e diretto: Richard Burton e Clint Eastwood sono alla guida di un commando paracadutista alleato, durante la seconda guerra mondiale. Devono liberare un generale americano prigioniero dei nazisti, rinchiuso in un castello arroccato su una delle cime più remote e inaccessibili della catena alpina. Stalker è una di quelle opere che vogliono dimostrare che “le potenzialità del cinema” sono, o almeno sono state, quelle “di espandere le capacità percettive” degli spettatori. Dove osano le aquile invece è un kolossal disimpegnato e adrenalinico dove i buoni scappano schivando senza problemi le pallottole dei cattivi mentre attorno a loro “tutto quello che potrebbe esplodere esplode”.
È uno di quei film che si scoprono e si amano da bambini, davanti ai quali non si può essere obiettivi: “è come tentare una valutazione definitiva della vostra infanzia: impossibile, perché quello che vi proponete di valutare è una parte formativa della persona che tenta di farlo”. Così Dyer scrive un omaggio sentimentale a questo film di cassetta senza però lasciarsi andare alla superbia, senza fare mai punching down, per usare un termine della commedia anglosassone, cioè senza mai sfottere o deridere dall’alto verso il basso le debolezze della trama o le scelte di regia; si limita a prenderne nota: “ogni volta che lo ridanno in televisione lo riguardo per poter rimpolpare la mia scorta di dettagli rivelatori e anche, lo ammetto, per divertirmi un sacco”.
Negli ultimi anni Dyer ha scritto di jazz e di fotografia, dei suoi viaggi in Cina, della biografia di D.H. Lawrence e, ora, di cinema, senza mai doversi preoccupare di essere, o di apparire, un esperto. Anche quando dice di considerare il saggio la sua forma naturale d’espressione Dyer sa, infatti, che i suoi libri sono opere ibride in cui, però, la parte essenziale per il lettore è l’esperienza letteraria: lo sguardo di Dyer sul mondo, il suo stile, il suo umorismo.Fuga, che può sembrare un lavoro “minore”, lo spin-off di un libro di successo, è invece l’introduzione perfetta a questa scrittura divagatoria.
Se già “non c’è mai un momento noioso in Dove osano le aquile”, Dyer rende ancora meno noioso Fuga ri-narrando e mescolando i piani di realtà e abbattendo continuamente la quarta parete, trasformando il film di Hutton nella sua parodia postmoderna: per esempio, Dyer non racconta mai Clint Eastwood nei panni del suo personaggio, il tenente Schaffer, ranger statunitense che si unisce all’esercito britannico per la missione. Anche nel bel mezzo di una scena, Clint Eastwood è quasi sempre Clint Eastwood, l’attore Clint Eastwood, che si arrovella e soffre per il fatto di avere una sola espressione facciale da poter esibire, cioè strizzare gli occhi (anche se una volta “li strizza in tedesco”, per mimetizzarsi tra i nazisti). Ogni tanto diventa addirittura l’ispettore Callaghan (dal ruolo che lo rese celebre), finito per una strana ucronia tra i colpi di una sparatoria della seconda guerra mondiale. Dyer ha tanto amato Dove osano le aquile che dice al lettore di considerare Fuga come un capitolo della propria autobiografia, ma più che nelle sue vicende personali, qui meno numerose che in Zona, questo libro così breve riesce a immergerci comunque nel suo modo di ragionare, nelle libere associazioni del suo pensiero: Fuga non è un libro su un film, è unlibro sulla consapevolezza dell’esperienza della visione di un film. Vale la pena, allora, citare quasi per intero l’esemplare entrata in scena dell’altro protagonista, Richard Burton, nel ruolo del maggiore Smith. Siamo nei primi minuti del film e l’inquadratura mostra sette passeggeri di un volo militare seduti in fila, con paracadute e tenute da neve, pronti a lanciarsi sulle Alpi. Uno di questi è Smith, a capo del commando, ma la finzione scenica si perde immediatamente e il maggiore diventa subito Richard Burton, scazzato, milionario e depresso:
Nella cabina di pilotaggio la luce è verdognola, il pilota indossa un paio di guanti pesanti (…) Hanno tutti un’aria preoccupata. Burton ha l’aria preoccupata perché ha problemi economici del tipo che la gente che non è oppressa da montagne di soldi non può minimamente immaginare. Poiché ha abbastanza cash da seppellire un elefante, cioè più soldi di quanti noi saremmo mai in grado di spendere, ha preso il vizio di comprare tanta di quella roba che potrebbe non avere abbastanza soldi per comprarne dell’altra. È senz’altro uno dei motivi che l’hanno spinto a recitare in un film come questo, che gli farà guadagnare quantità di denaro tali da permettergli di comprare alla sua Cleopatra [Elizabeth Taylor] («soldi facili» fu il verdetto di lei su questo cinefumettone) cose come un jet con troni d’oro brunito al posto dei sedili. Oppure potrebbe essere semplicemente che ha un mal di testa pazzesco per la sbronza della sera prima (ipotesi suggerita simbolicamente dalla circostanza che vicino a lui sono impilati delle specie di fusti di birra di metallo) ed è per questo che quando arrivano sulla zona di lancio guarda la luce rossa lampeggiante che pulsa come un’emicrania, come il segnale di una imminente insufficienza epatica.