A ventitré anni dalla fine di una delle guerre jugoslave più efferate, nella terra di confine tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina, disegnata dal fiume Drina, regna il silenzio.
Una volta superata Zvornik, percorrendo la strada statale che giunge a Srebrenica, s’incontrano molte case mai riabitate, che mostrano ancora i segni profondi della guerra. I ruderi dei luoghi delle esecuzioni di massa, da Branjevo alle scuole di Bratunac, passando per il magazzino di Kravica e Pilica, sono i testimoni silenti di ciò che accadde tra il 10 e il 19 luglio del 1995.
Dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate da Ratko Mladić, comandante militare serbo bosniaco dell’allora esercito noto come Vojska Republike Srpske, condannato con Radovan Karadžić e altre dodici persone all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi (i bosniaci musulmani). In pochi giorni scomparvero oltre ottomila persone.
In quello che a Potočari, frazione alle porte di Srebrenica, era il quartiere generale delle Nazioni Unite, ora un cartello recita: “Il fallimento della comunità internazionale”. L’ONU aveva dichiarato Žepa e Srebrenica “zone sicure”. Nel biennio 1994-’95 la presidiò con un contingente di Caschi blu olandesi, rivelatosi tragicamente non all’altezza e inerte nella missione di interposizione e di protezione dei civili.
Sulla collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono le spoglie mortali di 6539 delle 6973 vittime finora accertate grazie al DNA con un grado di affidabilità pari al 99.95%.
Il primo dato, che fotografa l’odierna paralisi della seconda municipalità più estesa della Bosnia ed Erzegovina, è il declino demografico. In assenza di un censimento ufficiale aggiornato, che è materia politica scottante, fonti amministrative locali stimano la presenza di appena 1500 abitanti a Srebrenica e non oltre seimila nell’intera area. Prima della guerra la zona era popolata da 36000 persone con una netta prevalenza dei bosgnacchi sui serbi bosniaci. Ora le due parti si equivalgono.
Esistevano otto scuole di ogni ordine e grado con ottomila studenti. Il lunedì mattina è un momento d’incontro emozionante a Srebrenica. È impossibile separare lungo la linea etnica gli studenti e le studentesse, che camminano sulla principale arteria stradale verso la scuola. Le classi superano la frontiera dell’appartenenza, ma sono frequentate solo da 850 alunni. E la guerra, come d’altra parte succede in Serbia, è bandita dai sussidiari. Non si parla della guerra, ma si respira.
Nel 1992 Srebrenica era una delle zone più benestanti della Bosnia con diecimila occupati. Oggi il numero è stimato in 500 unità. L’ospedale contava 35 medici. Attualmente cinque dottori tengono in funzione un ambulatorio. Il grande cinema, che a pochi passi dalla piazza principale del paese costituiva un centro culturale di rilievo, è uno scheletro di cemento crivellato di colpi di arma da fuoco. Alcuni lavori di messa in sicurezza della struttura sono cominciati appena concluse le elezioni politiche del 7 ottobre.
La città è piena di confini invisibili. I carnefici di ieri e i familiari delle vittime talvolta sono vicini di casa o di ufficio. In una realtà così complessa, c’è chi ha il coraggio di erigere ponti di dialogo. Valentina Gagić Lazić, serbo bosniaca, arrivata a Srebrenica nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo, è fra i creatori della comunità interetnica Adopt Srebrenica, inaugurata nel 2005 col sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza.
“Nell’aprile del 1992 avevo diciannove anni – racconta Gagić. Dopo il referendum, la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina e l’inizio delle ostilità belliche, trascorsi sei mesi in Slovacchia. Poi decisi di tornare a casa, illudendomi che la guerra sarebbe durata poco. Il matrimonio, la gravidanza e la nascita di mio figlio Nikola mi hanno in parte preservato dalla follia del conflitto”.
Gagić ha studiato a Sarajevo in un ambiente multiculturale. Per l’intero periodo bellico è rimasta in contatto con gli amici più cari di etnie diverse: “Abbiamo cercato di sostenerci a vicenda. Nel 1992 avevo diciotto anni, tutta la vita davanti. Ingenuamente pensavo che avremmo potuto fermare la guerra, scendendo in piazza con l’illusione di poter modificare il corso degli eventi. Scrivevo appelli ai miei connazionali, dicendo che era una follia dividere la Bosnia. E chi ancora lo immagina, sa che può finire solo nel sangue”.
Gagić ha riconosciuto e preso piena coscienza del genocidio, quando i profughi musulmani hanno cominciato a tornare. Dal 1999 lavora insieme alle donne di Srebrenica, che hanno visto svanire padri, mariti e figli. “Ascoltare le storie dei profughi e delle donne è stato uno schiaffo – dice. Ognuno deve fare i conti con i crimini perpetrati dal proprio gruppo etnico. Non accetto l’affermazione che tutti i serbi negano il genocidio. Io so il male che è stato inferto e non è stato fatto nel mio nome. Ho dovuto affrontare un percorso doloroso. Ci sono state incomprensioni anche con i miei familiari. Le persone mi fermavano per strada, chiedendomi la ragione della mia scelta. Per alcuni serbo bosniaci ero una traditrice, per i bosgnacchi rappresentavo una potenziale spia. Il negazionismo in atto è l’ultimo e più insidioso stadio del genocidio”.
In questo senso l’International Commission on Missing Persons, che agisce in tutti i paesi dell’ex Jugoslavia per restituire alle famiglie notizia dei congiunti scomparsi nei conflitti, ha assunto una posizione decisa avversa al proposito agostano di Milorad Dodik, ex presidente dell’entità serba Republika Srpska in cui ricade il territorio di Srebrenica e da poco eletto rappresentante serbo nella presidenza federale tripartita del paese, di annullare il rapporto ufficiale del 2004 nel quale i serbo bosniaci hanno ammesso il genocidio.
Una mossa che secondo l’ICMP mina il già complesso processo di riconciliazione. Il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione che “critica i reiterati tentativi di negare il genocidio di Srebrenica da parte delle autorità serbe”, sottolineando come questo riconoscimento sia invece un passaggio fondamentale per l’integrazione della Serbia nell’Unione Europea. Nel corso di un’intervista recente il Primo Ministro serbo Ana Brnabić ha declassato i fatti di Srebrenica a “crimine terribile, ma non genocidio”.
Finora è stato individuato il 70% dei 40.000 scomparsi nelle guerre jugoslave. Nel luglio del 1995 gli investigatori del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja attivarono l’inchiesta su più larga scala dal Secondo Dopoguerra mondiale. La scena del crimine genocidiario misura 2800 metri quadrati con 430 siti in cui sono stati rinvenuti frammenti ossei delle persone uccise. A Tuzla, che accolse decine di migliaia di profughi, gli investigatori trovarono i primi due sopravvissuti alle esecuzioni di massa e nel luglio del 1996 a Branjevo, Cerska e Orahovac riesumarono dalle fosse comuni le prime 500 vittime.
Proprio a Tuzla nelle stanze del Podrinje Identification Project, legato al Missing Persons Institute bosniaco, si continua a indagare, anche se i ritrovamenti sono sempre più rari. Il problema consistente è l’individuazione di altre fosse comuni secondarie e terziarie, in cui furono smistati i corpi per occultare le violenze. Dal 1998 ne sono emerse 40. Gli antropologi forensi del Podrinje raccontano, per esempio, che i reperti di una stessa persona associati con le tracce di DNA sono stati trovati in cinque fosse.
Dal 1996 Nedim Durak è al vertice del Podrinje Identification Center, che è situato in una strada secondaria distante dalle abitazioni, ma nel cuore di Tuzla. Nel 2000 l’edificio è stato costruito dall’International Commission on Missing Persons. L’ala destra della struttura è lo spazio operativo in cui insieme a Durak lavorano l’anatomopatologo, il dottor Kestovic, due “case manager” e tre antropologi della ICMP. Nell’ala sinistra c’è l’ossario. Vent’anni fa nel deposito del Podrinje c’erano circa ventimila sacchi non individuali contenenti quel che restava delle vittime.
“Ci concentriamo sull’identificazione delle persone assassinate nel 1995 a Srebrenica. La quasi totalità dei corpi seppelliti a Potočari è stata identificata qui. Abbiamo consegnato alla storia le prove di ciò che è stato. Alla fine degli anni Novanta avevamo dei problemi con la conservazione dei resti. Avevamo migliaia di corpi da associare agli scomparsi. La questione complessa era come ridare l’identità a una massa ormai indistinta di oltre ottomila morti”, ricorda Durak.
Dopo la riesumazione dalle fosse comuni, le autorità portavano i corpi a Podrinje, dove gli anatomopatologi li analizzavano e compilavano un primo referto autoptico. Poi gli antropologi decidevano quanti campioni di DNA erano necessari e da dove estrarli.
Ora le ossa sono conservate in buste di plastica. In quelle di carta ci sono i vestiti lavati e asciugati. Su ogni busta c’è una targhetta che indica il luogo, il codice della fossa comune e l’anno del ritrovamento. Ci sono ancora centinaia di sacche con ossa a cui restituire il nome e il cognome. Si tratta dei cosiddetti “casi attivi” sui quali il team del Podrinje sta operando. Ci sono circa un centinaio di casi in cui non si hanno informazioni complete. L’esame del DNA è stato positivo, ma non è stata stabilita una corrispondenza e servono altri campioni dei familiari.
La porta del Podrinje è sempre aperta alle famiglie degli scomparsi. I parenti delle vittime continuano a venire e a chiedere notizie. L’aggiornamento su qualsiasi cosa succeda qui è costante. I contatti non s’interrompono anche quando il processo di identificazione è concluso con successo.
La parte più dura di questa missione quotidiana è proprio il rapporto da costruire con chi da oltre vent’anni sopravvive all’assenza. “È davvero l’aspetto più problematico. Qui puoi ascoltare molte storie, però per esempio già vedere dei giocattoli per bambini nella tasca di un uomo adulto ti spiega tanto. Quell’uomo ha cercato di conservare quel giocattolo per portarlo a suo figlio, pensando di tornare a casa. Quando vedi qualcosa del genere…”, racconta Durak.
I vestiti o gli effetti personali rinvenuti nelle fosse comuni spesso poi sono seppelliti insieme, come fossero l’ultima goccia di memoria. Durak sfoglia il primo dei due volumi Knjiga Fotografija (Libro di fotografie). Un catalogo intimo per i familiari che raccoglie le immagini dei vestiti e degli altri oggetti emersi dalle fosse, purtroppo poco utili per le identificazioni. Ne hanno consentite solo trenta prima della rivoluzione del DNA. “Come iniziare? Quale famiglia contattare per prima? È stato molto difficile. All’inizio avevamo molti problemi nel rintracciare le famiglie, perché nutrivano la speranza che i loro cari sarebbero tornati a casa. Ma dopo vent’anni, tutti dobbiamo capire che nessuno n’è uscito vivo”, spiega il direttore del Podrinje.
Dopo l’identificazione, il procedimento burocratico, che coinvolge un rappresentante della ICMP, gli anatomopatologi, un pubblico ministero e la polizia per la consegna ai parenti del certificato di morte, significa dare una forma al vuoto e soprattutto è una storia da poter raccontare per alleviare la solitudine del dolore. Le famiglie spesso decidono di aspettare che si ricompongano tutti i resti del congiunto e che venga trovato dunque qualche altro arto, prima di dare l’attesa sepoltura individuale o a Potočari.
“Parliamo ancora di corpi incompleti. Persino dopo l’identificazione possono rimanere così sospesi. Per esempio, se troviamo e riusciamo a collegare un avambraccio o un qualsiasi arto, avvertiamo i familiari. Poi loro decidono quale sia il passo successivo. Se riesumare di nuovo il corpo per aggiungere i resti appena individuati o attendere ulteriori ritrovamenti”.
Negli anni sono state fatte circa seicento “ri-riesumazioni”. E ne restano ancora 750, perché i risultati del DNA hanno accertato l’identità delle ossa. La ricostruzione integrale di un corpo non ha un valore puramente simbolico.
Ogni caso è esaminato fino a quando gli antropologi maturano la certezza che tutte le ossa appartengano a una sola persona. Qualora si manifestino dei dubbi, si prelevano altri campioni di DNA. Sulla scrivania di Durak c’è un caso aperto dal 2005. Quando non c’è corrispondenza tra la parte superiore del corpo e quella inferiore, gli antropologi prendono due campioni di DNA da ognuna delle parti. Di solito il DNA è estratto dalle ossa lunghe, dalle vertebre, dall’osso pelvico oppure dai teschi. Nella stanza in cui si procede alle analisi, c’è un tavolo con uno scheletro in via di ricomposizione. Sul referto sono evidenziate in rosso le ossa mancanti e in giallo quelle rotte.
Solo il 3% delle vittime è stato ritrovato con i documenti in tasca. Dal 2000 le indagini hanno compiuto un sostanziale salto di quantità e qualità con un progetto pionieristico dell’International Commission on Missing Persons. Per la prima volta al mondo si è potuto prelevare un campione di DNA dal sangue dei parenti delle persone scomparse per confrontarlo con quello estratto dalle ossa dei corpi anonimi riesumati.
Il team del Podrinje non è stato più costretto a mandare i campioni di DNA a Sarajevo o all’estero, perché a Tuzla sono stati creati un laboratorio e un database. Nel giro di due mesi i risultati degli esami, che consentono di risalire all’identità della persona scomparsa, erano e sono pronti.
Un vantaggio fondamentale del DNA è quello di connettere le diverse parti di un corpo; sarebbe impossibile farlo senza, perché i resti umani sono stati frammentati e dispersi in fosse comuni secondarie e terziarie. Gli anatomopatologi e gli antropologi hanno esaminato 17.000 corpi o frammenti di essi recuperati in 430 siti, di cui 94 fosse, riconducibili al genocidio di Srebrenica. L’ICMP ha raccolto 22.306 campioni di DNA, che equivalgono a 7.745 persone, 6.940 delle quali riconosciute grazie al DNA. I metodi tradizionali d’identificazione hanno consentito di individuarne trentatré.
L’ultima scoperta di una fossa comune risale al 2010: “La politica ha mostrato indifferenza verso il nostro lavoro. Non interessava crearci dei problemi. La frequenza dei ritrovamenti è diminuita sensibilmente. Se si scoverà un’altra fossa comune, cambieranno molte cose”. Durak crede sia ancora possibile: “È stata denunciata la scomparsa di 8000 individui. All’appello mancano più di mille persone. Molti corpi sono stati seppelliti incompleti, quindi le parti mancanti sono ancora lì fuori. Dove? Vedremo. Le riesumazioni andranno avanti”.
Le ferite dei vivi, nel frattempo, non sono suturate. Appena varcata la soglia del Memoriale di Potočari, Amra Nalić, classe 1991, indossa il velo e il volto si riga di lacrime, quando sfiora e si sofferma sulle 25 lapidi che portano il nome dei propri parenti. All’età di sei mesi riparò con la famiglia a Tuzla. È cresciuta a Sarajevo, dove si è laureata in economia. Nel 2012 ha scelto di stabilirsi nella città natia. Nel 2000 il padre, Hajrudin Nalić, è stato uno dei primi tre esuli musulmani a rientrare da Tuzla. Srebrenica era piena di profughi serbi sopraggiunti e rischiò il linciaggio. La caffetteria che gestiva era stata demolita. Reclamò la propria casa, poi la ridipinse sognando il ricongiungimento familiare.
“Non c’è difesa della presunta patria che sopporti così tanto dolore – sottolinea Nalić. Ho solo una vita e non posso concederla all’odio. Ci tocca il destino dei sopravvissuti. Coltiveremo la memoria, ma intendiamo essere liberi di scegliere il nostro futuro”.
Vent’anni sono pochi per la storia, ma non nella vita di una persona. A Srebrenica esiste e resiste una generazione coraggiosa di giovani. Sono costretti a combattere una guerra che non gli è mai appartenuta. Hanno scelto di non andarsene o di tornare dopo gli studi a Sarajevo per ragioni intime, che vanno oltre il peso della memoria. La scelta tra l’esilio e la propria terra che ogni mattina evoca le ferite è complessa.
Bekir Halilović, che non ha ancora ritrovato il padre, è un’altra anima lungimirante diAdopt. Sembra colmare i vuoti con un attivismo che non conosce sosta. È interessante osservare il suo legame con Krsto Stjepanović, ingegnere artefice dell’industrializzazione di Srebrenica e ultimo segretario locale della Lega dei comunisti di Jugoslavia. Stjepanović rappresenta per i nipoti acquisiti la storia di un paese che viveva, nonostante i pesanti limiti del partito unico. È il nonno che cura una durissima frattura generazionale tra il prima e il dopoguerra, riflettendo sugli errori della propria stagione politica. Le macerie delle tre zone industriali di Srebrenica alimentano la Jugonostalgija e costringono i giovani a posare lo sguardo sul passato. Per i ventenni di Srebrenica ascoltare Stjepanović equivale a ricercare le ragioni che tenevano unito il tessuto sociale.
Anche il ventenne Borko Dragicević è molto legato a Stjepanović. Borko parla poco, ma sorride molto. È un bravo artigiano del legno, che ha cesellato modellini in scala di New York e Boston. Borko sa parlare con le mani. Quasi a immaginare un futuro diverso, ha scolpito la città di Srebrenica dentro a due cubi lignei. Sovrapponendoli la chiesa ortodossa e la moschea si intersecano alla perfezione. Dragicević è nato a Bajina Bašta, che si specchia sulle acque del lago artificiale Perućac, creato con l’acqua della Drina e la diga che separa la Serbia dalla Bosnia. Lui sente di appartenere a entrambe le sponde del lago e descrive un profondo sentimento religioso. “Sono un cristiano ortodosso – dice. Amo andare in Montenegro per visitare e raccogliermi in preghiera in monasteri splendidi. A Srebrenica possiamo vivere insieme, rispettando le rispettive fedi”.
Senza immaginare un futuro condiviso tra la parte serbo bosniaca e quella bosgnacca, la memoria diventa oggetto di campagna elettorale ed è un elemento della gestione del consenso. L’ingovernabilità di un concetto di cittadinanza prevalentemente etnico resta la ragione fondamentale delle tensioni. E compromette la ripresa economica.
L’insegna che indica l’ingresso di Srebrenica la definisce città turistica. Dietro alla nuova moschea e alla chiesa ortodossa, confinanti, appaiono le rovine dell’Hotel Domavia. La struttura accoglieva il turismo d’élite (non solo jugoslavo) amante delle terme, ora inutilizzate a causa di veti politici, e garantiva il benessere economico locale insieme alle miniere di argento, piombo e zinco. Oggi sono privatizzate, con scarsa rendita e alcun rilievo occupazionale.
Sull’altipiano di Srebrenica sgorgano sei fonti d’acqua termale preziosa, inutilizzate dallo scoppio del conflitto. La nuova struttura alberghiera Guber, che rilancerebbe il turismo, è un imponente relitto incompiuto e abbandonato da quasi dieci anni. Non c’è l’accordo tra l’imprenditore bosgnacco e il governo della Republika Sprska di Banja Luka, che ha la giurisdizione sull’acqua.
“L’intera Bosnia ha la necessità che si riattivino forze di mediazione sostenute dalla comunità internazionale, la cui pressione ormai è bassissima” sostiene Abdurahman Malkić, già sindaco dal 2002 al 2008: “alla memoria e alla ricerca della giustizia nei tribunali, devono accompagnarsi una visione comune e investimenti. Srebrenica rischia di soccombere definitivamente”. Malkić ammette i limiti e le responsabilità della politica nella fase della ricostruzione, a cominciare dalle infrastrutture e dai collegamenti con i villaggi. Passate le emergenze, il flusso degli aiuti economici è stato mal impiegato e poi è drasticamente calato. La municipalità di Srebrenica, che si estende per 527.000 metri quadrati, come gran parte della Bosnia ed Erzegovina è costituita da un intreccio di villaggi serbi, croati, bosgnacchi e misti. Villaggi che condividevano tutto, dalle infrastrutture stradali alle scuole.
Il villaggio di Osmače dista pochi chilometri da Srebrenica. È un altipiano a circa mille metri di altitudine, solo una collina lo divide dal confine con la Serbia. Era composto da sei frazioni miste in cui vivevano insieme sia serbo bosniaci sia bosgnacchi, lavorando a valle nel distretto industriale del legno. Delle cittadine medievali che si scorgono dalla collina non è rimasto molto. Nella primavera del 1993 le truppe di Ratko Mladić, che si insediò nel mese di maggio a Osmače, insieme ai paramilitari di Arkan sfondarono il confine da questo lato.
Dall’inverno del 1992 al marzo del 1993, quando Osmače è stata definitivamente evacuata, l’area è stata sottoposta a pesanti bombardamenti giornalieri a causa della facile esposizione.
Delle 942 persone che l’abitavano ne sono tornate novanta. Muhamed Avdić tiene aperto un sentiero, circondato dai boschi ancora pieni di mine antiuomo, che conduce alle macerie della scuola dell’infanzia costruita negli anni Sessanta di cui il padre era il preside. Fino al 2002 il villaggio è rimasto sostanzialmente abbandonato. Poi c’è chi ha deciso di tornare, sistemandosi nelle tende e nelle case diroccate. Avdić ha ricostruito la casa della zia, in cui vive la madre che cura un piccolo appezzamento della terra amata.
Un camion di grossa cilindrata permette di percorrere i cinque chilometri di strada sterrata che attraversano il bosco e portano alla scuola. La voce di Avdić s’incrina spesso durante la narrazione, come quando evoca la famiglia Malagić composta da sette persone e sterminata tra il 1992 e il 1995. Due figli, compagni di scuola di Avdić, furono uccisi dallo scoppio di una granata proprio nei pressi del plesso scolastico. E hanno ricevuto sepoltura nel luogo in cui si avviavano alla vita. Ognuna delle sei frazioni ha il proprio cimitero. Alle porte di Osmače, c’è un piccolo memoriale che ricorda i 247 abitanti uccisi tra il 1992 e il 1995.
Per anni Avdić ha cercato invano i resti del padre, ma è emersa una traccia. Nel maggio del 1992 il preside fu salvato da un bidello, un serbo che sapeva ciò che sarebbe accaduto. In gran fretta gli studenti serbo bosniaci avevano già lasciato la scuola e nel giro di qualche settimana le milizie serbe bombardarono la casa del dirigente, situata a pochi metri dalla scuola. Muhamed affronta una lotta interiore contro l’oblio, che è faticosa e lacerante.
Dopo la separazione dal nucleo familiare, riparato nel 1993 a Srebrenica, Avdić senior avrebbe varcato il confine per rifugiarsi in Serbia, nel comune di Bajina Bašta che si sporge sulla Drina e sulla linea di frontiera. Una procuratrice di Belgrado ha aperto un fascicolo sulla vicenda.
Avdić mantiene la famiglia grazie all’impiego nell’amministrazione comunale e coltiva la terra a Osmače.
Con la disoccupazione che supera il 45%, ai giovani di Srebrenica non resta che scrutare come archeologi gli esiti di un processo di deindustrializzazione inesorabile, non solo delle fabbriche legate all’estrazione delle materie prime. I giovani emigrano o trovano il modo di accedere all’amministrazione pubblica, il cui apparato locale è sempre più ampio con 130 impiegati rispetto ai 35 anteguerra. Nella peggiore delle ipotesi trascorrono le giornate nei numerosi centri di scommesse sportive.
“Nei giovani riscontro una sensazione di stanchezza, che si traduce in mancanza d’iniziativa. Sono stanchi di aspettare il cambiamento e un’enorme percentuale di loro vede come unica via d’uscita l’emigrazione, che è una tragedia per la Bosnia. La volontà di fuggire esisteva anche nel dopoguerra, ma quel periodo era animato da una certa speranza di ripartire, che adesso si è persa”, osserva Irfanka Pašagić, neuropsichiatra originaria di Srebrenica, deportata nel 1992 destinazione Tuzla.
Il legame tra Srebrenica e Tuzla, che non rientra nel territorio della Republika Srpska, è strettissimo. Nei giorni terribili del luglio 1995 migliaia di bosgnacchi cercarono invano la salvezza, attraversando i boschi per raggiungere la zona libera di Tuzla.
La città accolse circa centomila profughi, che equivalevano al numero degli abitanti. “Tuzla ha sempre dimostrato comprensione, anche quando erano i serbi a scappare. Non abbiamo mai rifiutato nessuno, aprendo grandi centri di accoglienza. Mai a Tuzla è successo che si manifestasse un qualsiasi tipo d’odio verso un profugo. Dovevamo mangiare tutti. Nell’esercito della città avevamo anche i serbi e mantenemmo il tratto multietnico della polizia locale. Mai i profughi bosgnacchi hanno cercato rivalse. Il riconoscimento più grande consiste nell’essere ringraziato dalle persone di Srebrenica. Ma non avrei fatto nulla senza i cittadini di Tuzla, che hanno mostrato un amore sconfinato per loro”, racconta Selim Beslagić, sindaco in carica dal 1990 al 2001.
A Tuzla esistono dieci campi profughi, risalenti al 1992, con scuole all’interno, in cui vivono circa tremila persone. Un progetto di edilizia popolare, cofinanziato da un’organizzazione austriaca, dovrebbe consentire la sistemazione definitiva nelle abitazioni.
Negli anni la profuga Pašagić è diventata un ponte fondamentale tra le due realtà con la creazione già nel 1992 del centro Tuzlanska Amica, che tuttora insieme ai progetti per le adozioni a distanza garantisce un servizio sociale, pubblico e gratuito prezioso.
“Avevo l’enorme bisogno di parlare e di essere ascoltata, quando sono arrivata a Tuzla”, dice Pašagić. Non era la sola. A Tuzla i civili soffrivano la fame, tentando di sopravvivere alla pioggia di granate che distrusse il centro storico, ma sentivano la necessità di raccontare le proprie storie. E trovarono un rifugio sicuro nella professionalità e nell’umanità di Pašagić.
Nessuno in Bosnia ed Erzegovina si era mai occupato di disturbo post traumatico da stress. Pašagić è stata una pioniera. Nell’ex Jugoslavia oggi l’area di Zvornik e Srebrenica ha il tasso più alto di persone colpite da questa sindrome: “Il disturbo non era affrontato bene nemmeno dalla letteratura della mia professione. Quindi posso persino dire che ho imparato dai pazienti. Nel 1992 avevo un libro di Judith Herman, Trauma and recovery, che chiaramente condividevo con i colleghi. Ero l’unica con una formazione in psicoterapia ed ero l’unica donna psichiatra. Tutti erano spaventati dal lavorare con i bambini traumatizzati. Me ne sono occupata insieme ai casi di donne vittime di abusi sessuali”.
Il lavoro di Pašagić sull’infanzia e sull’adolescenza mira a evitare ciò che lei definisce il trasferimento del trauma di generazione in generazione. Giovani traumatizzati a cui la storia della guerra è stata tramandata dalle rispettive famiglie in modo unidirezionale. “Avremmo dovuto occuparci innanzitutto della scuola – prosegue. Gli insegnanti avevano bisogno di parlare della propria esperienza, e non li abbiamo aiutati. Una persona traumatizzata recepisce in maniera negativa il racconto del trauma altrui. A scuola per anni, gli insegnanti chiudevano la conversazione appena il bambino cominciava a parlare della propria condizione traumatica. La guerra continua a essere un argomento taciuto a scuola”.
Pašagić è una donna geniale, tenace e ironica. L’unica promessa che non mantiene, è smettere di fumare. È una voce critica e libera nella realtà bosniaca, capace di non farsi sopraffare dai lutti che l’hanno colpita. Sostiene che non si può piangere per tutta la vita. La guerra ha cambiato per sempre le persone. Ma occorre impegnarsi, affinché si possa intravedere la normalità.
Pašagić argomenta una riflessione molto interessante. Parole significative, pronunciate da chi ha patito la violenza dei militari serbo bosniaci a Srebrenica: “L’esperienza più difficile è stata incontrare i criminali di guerra bosgnacchi. Per quanto m’impegni a concentrarmi sul mondo reale, anch’io mi sentivo in colpa per ciò che hanno fatto. Lavorare con i criminali non è mai bello, ma farlo con loro è stato qualcosa di devastante. La società di massa li definisce eroi di guerra, perché hanno protetto dai serbi e non criminali, per aver ucciso dei civili. È più confortante essere vittima che aggressore o carnefice. E qui in Bosnia si sentono tutti vittime. La gente vanta l’orgoglio di essere sopravvissuta alla guerra, ma si adagia nella posizione di vittima”.
In Bosnia ed Erzegovina si processa poco a livello locale. E la sostanziale impunità dei criminali di guerra è uno dei principali motivi del fallimento di qualunque modello di riconciliazione. “In Bosnia non c’è ancora l’atmosfera adatta, affinché si possa giudicare senza pressioni esterne – spiega Vehid Šehić, giudice di lungo corso e presidente del Forum Građana Tuzle. I cittadini non sono pronti ad affrontare i fatti della guerra. Esistono una verità e tre mezze verità: serba, croata e bosgnacca. Manca la visione d’insieme sul conflitto ed è una grave perdita. La glorificazione dei criminali di guerra è un ulteriore crimine che ci stiamo infliggendo. Dal 1996 contrasto la teoria che in guerra tutto sia concesso. Chi più, chi meno, le parti in causa hanno commesso crimini e vanno sanzionate. Ma nei tribunali il revanscismo nazionalistico blocca qualsiasi accertamento”.
Šehić ha una posizione netta sul contributo del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja: “Senza il suo lavoro nella ex Jugoslavia non si sarebbe celebrato neanche un processo. Possiamo essere critici, ma senza i giudici dell’Aja i condannati oggi sarebbero ancora ai vertici delle nazioni post jugoslave. Poi, come chiunque fa, ci sono stati degli errori”.
A fine novembre l’assoluzione di Naser Orić, comandante militare bosniaco noto come il “difensore di Srebrenica” negli anni dell’assedio, emessa dal tribunale di Sarajevo, ha riacceso le tensioni. Considerato un eroe di guerra dai bosgnacchi, è un criminale per i serbo bosniaci che denunciano l’assenza di giustizia per le proprie vittime. In generale, pochi capi delle forze militari bosniache sono stati processati per crimini di guerra. Il cinquantunenne Orić, già assolto dal Tribunale dell’Aja nel 2008 dopo tre anni di detenzione e una condanna in primo grado a due anni di reclusione, era al processo d’appello insieme al compagno d’armi Sabahudin Muhić per l’uccisione di tre militari serbi arrestati all’epoca nei dintorni di Srebrenica. Orić è entrato e uscito dal tribunale accolto dagli applausi con i cartelli “Heroji” e “Komadante”.
Zeljka Cvijanovic, neoeletta presidente dell’entità serbo bosniaca, la Republika Srpska, non ha esitato a definire la sentenza un’amnistia generalizzata: “Se questa è la giustizia destinata al popolo serbo in Bosnia, non bisogna sorprendersi che i cittadini ogni giorno di più non credano in un futuro comune per la Bosnia”. Le associazioni delle vittime serbe stimano in 2428 i civili e militari uccisi nell’area dei villaggi intorno Srebrenica tra il 1992 e il 1995.
“Ripeto spesso che la guerra non è ancora finita: non si spara, però il contesto spaventa – ribadisce Pašagić. C’è una retorica nazionalista che non ha prospettive. Le scuole, piene di icone, sono diventate chiese e moschee. Avremmo dovuto processare e condannare i criminali di guerra, mentre è come se fossero diventati dei modelli per i giovani. La comunità internazionale non reagisce quando nella Republika Srpska si dà il nome di Radovan Karadžić a una casa dello studente. Ci sono piazze intitolate a Mladić. Ma accade lo stesso sull’altro fronte nella Federacija (la Federazione di Bosnia ed Erzegovina). I serbi, i croati e i bosgnacchi commemorano solo le rispettive tragedie. Poche, coraggiose e represse associazioni condannano tutti i crimini”.
In un contesto generale sempre più diviso Tuzla costituisce ancora un’eccezione, nonostante i profondi smottamenti economici e sociali ha conservato un carattere multietnico anche durante il conflitto. Tuzla, in cui sono convissute 27 minoranze costitutive della Bosnia, non è caduta durante la guerra e non cede, perché resistono una tradizione di comunità e una cultura cosmopolita. All’alba del ventesimo secolo si parlavano sette lingue e nel centrocittà era usuale sentire l’italiano, l’ungherese o il tedesco. La traccia antica non è svanita. Accade che alla fine di una corsa, un tassista si soffermi a parlare venti minuti per spiegare che cosa rappresenti il cosmopolitismo a Tuzla.
Nel proprio ufficio il sindaco di Tuzla Jasmin Imamović mostra i risultati delle elezioni appena ufficializzati. Il Socijaldemokratske partije (SDP) si è confermato il primo partito in città e nel cantone, che è il più grande del paese. “Tuzla costituisce un’alternativa politica nel quadro uniforme della Bosnia – afferma. La lotta contro il nazionalismo nella sua accezione più retriva va combattuta quotidianamente nei quartieri. Davanti a noi abbiamo due sfide decisive. Creare le condizioni affinché qui si possa investire e fermare l’esodo dei più giovani, che condanna il paese all’immobilità”.
Secondo il censimento del 1991 gli abitanti erano 131.618 di cui il 47.6% bosgnacchi, il 15.5% croati e 15.4% serbo bosniaci. Il 16% si dichiarava jugoslavo. L’ultima rilevazione disponibile, che risale al 2013, ha registrato un calo a 110.979 persone con un aumento (72.8%), dovuto all’afflusso dei profughi, della presenza bosgnacca, stabile (14%) quella croata, mentre in discesa (4%) quella serba. Il 9% raccoglie le altre minoranze. Le percentuali sono rispettate anche nella distribuzione degli incarichi nell’amministrazione pubblica.
Tuzla è l’unica grande città della Bosnia ed Erzegovina in cui prima, durante e dopo la guerra non hanno mai governato i nazionalisti postjugoslavi. “Ho creduto che Tuzla potesse essere un modello per le altre città bosniache, ma purtroppo non è stato così – spiega Beslagić. Mi dispiace che il suo esempio invece di allargarsi si stia restringendo, abbiamo troppa pressione da tutte le parti. Come farà Tuzla a resistere, quando tutte le altre città funzionano in maniera diversa?”.
Il nome Tuzla deriva dalla parola turca tuz, che vuol dire sale. Qui si estraeva e produceva la materia prima. In città esistevano oltre dieci saline ed era la principale esportatrice in Jugoslavia.
Tuzla era uno dei più potenti centri industriali della Jugoslavia con la centrale termoelettrica, le miniere di carbone e lo sviluppo del settore energetico, dell’industria meccanica e chimica oggi scomparse insieme alla produzione di sale che è stata dislocata. Prima della guerra c’erano 60.000 occupati nell’industria, che pone la sfida complessa della riconversione economica e ambientale dopo il processo violento di deindustrializzazione. La forza lavoro attualmente impiegata nell’industria locale ormai non supera le duemila persone. Ma è ancora il cantone con i fondamentali economici più solidi, nonostante le risorse siano drenate da Sarajevo.
“Eravamo abituati a vivere in un ambiente con grandi fabbriche in cui c’erano almeno mille operai”, evidenzia Beslagić: “Ora esiste un sistema di piccole e medie imprese che fatica. Vanno abbastanza bene le industrie tessili e di scarpe. Le privatizzazioni sono state l’ultimo fattore della decimazione della classe operaia. La frammentazione e parcellizzazione del tessuto produttivo ha disarmato il sindacato, incapace di trasformarsi e misurarsi in nuove lotte”.
La Banca Centrale ha appena detto che i risparmi dei bosniaci sono pari a undici miliardi di marchi, che equivale al debito pubblico della Bosnia ed Erzegovina. C’è il contributo sostanziale delle rimesse dall’estero della diaspora. Secondo la Banca ammonterebbero a quasi due miliardi annui. L’insicurezza politica allontana flussi e investimenti stabili di capitali dall’estero.
Beslagić è un politico navigato. È stato anche governatore del cantone di Tuzla per il partito socialdemocratico e poi eletto per due volte al parlamento nazionale. Ma anche per lui è difficile spiegare la complessa archittetura istituzionale e partitica: “La Bosnia è come un’orchestra con tanti musicisti. Adesso immaginatela suonare alla Scala di Milano con tre direttori d’orchestra in contemporanea, com’è l’attuale presidenza tripartita tra serbo bosniaci, croati e bosgnacchi. Per circa quattro milioni di abitanti sono proliferati più di 120 partiti. È un sistema insostenibile, finanziato col denaro pubblico e minato dalla corruzione. Ma la Bosnia sopravvive, non la può rompere nessuno”.
La forma di democrazia, sorta sulle macerie della guerra, non coinvolge i giovani: non più del 20% si reca alle urne e la struttura dei partiti è estremamente familistica. Dal partito unico jugoslavo, in questa tornata i bosniaci sono stati chiamati a esprimersi in un sistema con 129 partiti. Più in generale, le elezioni, svoltesi all’inizio di ottobre, non hanno generato nel paese alcuna attesa di cambiamento. L’esito ha confermato l’assetto di potere dei partiti di matrice nazionalista con la variabile rappresentata dal croato Komšić.
Nei ventotto seggi allestiti nella municipalità di Srebrenica 5514 elettori sui 10690 aventi diritto sono andati a votare. Prima di entrare nella cabina elettorale gli sono state consegnate quattro schede per scegliere il presidente della Republika Srpska, quello della Republika Srpska che è andato a far parte della presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina, i rappresentanti per il parlamento di Banja Luka della Republika Srpska e per quello nazionale di Sarajevo.
La percentuale dell’affluenza pari al 51.58% rispecchia il dato nazionale ed è leggermente inferiore a quella di Tuzla, in cui ha votato il 53% di chi ne aveva diritto. Nel 70% dei seggi elettorali bosniaci c’erano, quali osservatori accreditati e indipendenti, quattromila membri dell’associazione apartitica Pod Lupom, che significa “sotto la lente d’ingrandimento”. La delegazione nazionale degli osservatori è stata guidata dal fondatore di Pod Lupom. Dal 2001 al 2007 il magistrato Vehid Šehić è stato anche il presidente del Comitato elettorale della Bosnia ed Erzegovina con la responsabilità organizzativa del voto.
“Queste elezioni non sono state né rispettose della legge né tantomeno libere – sostiene Šehić. I trenta giorni della campagna elettorale sono stati segnati da intimidazioni e irregolarità. Non si può andare alle urne col ricatto di perdere il posto di lavoro o vendendo il voto per cinquanta marchi. Le elezioni in Bosnia sono compromesse ed è una conclusione condivisa dagli osservatori internazionali. In ventidue anni non abbiamo mai associato le elezioni a un momento di felicità”.
I tre prossimi presidenti della Bosnia ed Erzegovina, che dopo il giuramento di fine novembre assumeranno a rotazione ogni otto mesi la funzione di Capo di Stato, sono il bosgnacco Šefik Džaferović, il croato Željko Komšić, capace di attrarre il voto dei musulmani, e Milorad Dodik già presidente di una delle due entità, la Republika Srpska, che compongono il paese. A più di sei settimane dalle elezioni, si sta sbloccando la partita per la scelta del nuovo Premier, che dovrebbe essere il serbo Zoran Tegeltija, ex ministro delle Finanze della Repubblica Srpska. Anche qui vige il principio della rotazione etnica. La croata Borjana Krišto è stata nominata alla presidenza della Camera, mentre l’attuale primo ministro, il musulmano Denis Zvizdić, è il suo vice.
Le urne hanno saldato un asse serbo-croato per isolare Komšić, che ha sconfitto il candidato nazionalista Dragan Čović del partito croato conservatore HDZ. La Croazia ha reagito male al voto, perché la vittoria di Komšić, sostenuto anche dai bosgnacchi, non garantirebbe l’interesse etnico della popolazione che si dichiara croata. E i serbi sono spettatori attenti e partecipi nella logica di una crescente spartizione etnica della Bosnia.
“La politica ha perso credibilità agli occhi dei cittadini”, prosegue Šehić: “La guerra produce corruzione e criminalità organizzata, che avvelenano il nostro sistema politico. In tutti i paesi durante la transizione democratica si assiste a una proliferazione dei partiti. In Bosnia però non si registra nessuna inversione di tendenza, perché la politica è l’occupazione più munifica. L’unica paura consiste nel perdere il potere, che qui vuol dire non essere più liberi. C’è un’oligarchia che si è arricchita con la politica e governa alimentando la paura e l’odio per il diverso”.
L’etnonazionalismo per i cittadini spesso non è altro che una scelta pragmatica per sopravvivere in una situazione economica difficile. Il sistema politico è segmentato. La stessa legge elettorale e la costituzione scoraggiano l’attraversamento delle frontiere etniche. In una struttura statuale poco coerente l’interesse dei partiti è conservare le rispettive posizioni di rendita settarie.
Il paese, prodotto degli accordi di pace di Dayton del 1995, si articola nella Federazione della Bosnia ed Erzegovina, abitata in prevalenza da bosgnacchi e croati, e nella Republika Srpska a maggioranza serba. Due terzi dei membri della Camera bassa sono eletti dalla Federacija e un terzo dalla Republika. Poi c’è il distretto di Brčko, una sorta di cuscinetto ricavato da porzioni di territorio delle due entità, che è sotto la supervisione internazionale. Oltre ai tre Capi di Stato e ai tre Premier, a livello amministrativo locale ognuno dei dieci cantoni esprime un Primo ministro. Complessivamente il numero dei parlamentari supera quota settecento.
Sulla Bosnia ed Erzegovina è forte l’influenza della Turchia, della Russia sulla Republika Srpska, e ovviamente a ovest degli Stati Uniti. La fragilità e l’incapacità di autodeterminarsi come entità statuale unitaria espone il paese a molteplici influenze e interessi. Dopo il costante avvicinamento di Dodik a Putin, in questi giorni la Nato ha rilanciato il Membership Action Plan (Map) per la Bosnia, che punta a includere lo Stato nell’Alleanza atlantica. Il processo politico e militare d’integrazione euro-atlantica della Bosnia è osteggiato dal presidente serbo bosniaco e procede a rilento dal 2010. La collocazione internazionale è uno dei punti di divisione tra i tre presidenti.
Si tratta di scenari, scelte e posizionamenti profondamente distanti dalla qualità della pratica democratica. “In qualunque città andrete, Sarajevo, Banja Luka o Srebrenica tutti gli osservatori ripeteranno la stessa cosa. Sono state le elezioni meno corrette del dopoguerra”, conclude Šehić.
Valentina Gagić Lazić ha assistito dall’interno come osservatrice di Pod Lupom alle operazioni di voto a Srebrenica, rilevando numerose irregolarità: “Il solo fatto che le schede elettorali siano stampate su carta comune senza alcun segno distintivo o un particolare tipo di carta, mette a rischio il voto. Chiunque avrebbe potuto riprodurle. Ho votato per la prima volta nel 1996. Quest’anno il meccanismo elettorale era pieno di falle. Si può dire che non esistevano controlli. La presenza degli osservatori internazionali veramente indipendenti si è molto ridotta. In passato si prestava un’attenzione maggiore alla correttezza del processo. Stavolta la sensazione è che si sia voluto gestire le elezioni, come se fossero un male necessario, con l’auspicio di limitare le turbolenze politiche”.
Gagić menziona numerosi episodi avvenuti nei sette seggi della città: “Una ragazza di Pod Lupom ha annotato che si introducevano nelle urne altre schede elettorali. Un caso estremo si è verificato in un paesino, in cui un osservatore ha denunciato che venivano portati pacchi di schede elettorali in più e in quel caso è intervenuta la polizia insieme al Comitato elettorale. Un altro collega ha rilevato la presenza di più di una persona nella cabina elettorale. È stato permesso di votare senza un documento di identità. Ci sono stati tanti casi in cui la gente arrivava al seggio e scopriva che qualcuno aveva già votato al suo posto con un indirizzo di residenza in Serbia. Un’altra cosa grave, successa a livello nazionale, è il fatto che molte persone presenti nelle liste elettorali, ma in realtà decedute anni fa, abbiano votato. Sono fiera di quei concittadini che in tale contesto hanno difeso con onestà il proprio diritto”.
Nella municipalità il primo partito è l’SNSD di Dodik. Un paradosso apparente che aiuta a comprendere la situazione di stallo della città. Srebrenica, immersa in una natura splendida a pochi chilometri dalla Drina, sa aprire allo straniero il proprio cuore ferito, sa accogliere e ha bisogno di essere ascoltata. “Le persone qui possono stare insieme, nonostante quello che è accaduto”, conclude Gagić: “Il riconoscimento reciproco è la premessa imprescindibile insieme a nuova idea di cittadinanza. Al mondo Srebrenica dice che siamo tutti davanti a una scelta binaria. Percorrere la strada tortuosa del dialogo, della moltitudine dell’identità o cedere alla barbarie della divisione su base etnica, che ha l’esito del 1995”.
(Hanno collaborato il giornalista e traduttore Zoran Herceg, la traduttrice e interprete Laura Di Marco)