D a inizio febbraio in Romania si sono scatenate le più grandi proteste di piazza dalla fine del comunismo. Innescate dalla proposta di un decreto salva-corrotti da parte del governo socialista, manifestazioni oceaniche, capaci di radunare anche 300.000 persone nel centro di Bucarest in un solo giorno, stanno chiedendo a gran voce la riforma completa del sistema politico e il repulisti della classe dirigente. In controtendenza con il clima continentale, la piazza sembra chiedere più Europa. Queste rivolte non sono estemporanee, ma rappresentano il picco di una prolungata stagione di scontento.
Caratterizzate da una bassa affluenza (inferiore al 40%), le elezioni organizzate nel dicembre scorso avevano consegnato agevolmente il potere al partito socialista, mettendo apparentemente fine alla lunga crisi politica che perdurava dall’autunno del 2015. Una crisi innescata da un evento tragico, a prima vista sconnesso dalla normale routine istituzionale. Il 30 ottobre del 2015 uno spettacolo pirotecnico della band Goodbye to Gravity genera un incendio all’interno del Colectiv Club, uno dei locali più trendy di Bucarest. Il bilancio finale delle vittime è altissimo: 64 morti e 147 feriti, sui circa 400 avventori che si trovavano nel locale quando è scoppiato l’incendio. Molti di loro muoiono in ospedale, a causa dello stato di degrado del sistema sanitario. Quei tre minuti lasciano un paese sotto shock, incapace di accettare una strage così assurda. Incapace di accettarla, soprattutto perché non ha dubbi su chi sia il colpevole: la corruzione della classe dirigente. Il Colectiv non era a norma. Il soffitto era coperto di spugna infiammabile. Le uscite di emergenza non erano abbastanza. In sala c’erano più persone del massimo consentito. Non era la prima volta che la gestione non rispettava le norme di sicurezza.
Il ruolo di spartiacque che il dramma del Colectiv Club segna per la comunità rumena è palese fin da subito, nei dettagli della reazione popolare alle carenze statali. In una settimana più di 1500 cittadini di Bucarest donano volontariamente sangue per le trasfusioni ai feriti, un record nella storia rumena. Molti altri portano bende, coperte, creme e addirittura cibo. Risulta difficile non sorprendersi nel vedere privati cittadini rifornire di pane e garze gli ospedali pubblici della capitale di uno stato membro dell’Unione Europea. L’indignazione popolare porta così alle dimissioni del premier socialista Victor Ponta. Nell’assenza di una forza politica capace di pacificare il paese, il presidente Klaus Iohannis patrocina allora la creazione di un governo tecnico, chiamando a capo dell’esecutivo Dacian Cioloș, agronomo ex Commissario Europeo per l’Agricoltura nella Commissione Barroso. Il favore popolare goduto dal governo Cioloș, visto come l’uomo di Bruxelles, spicca come un’eccezione nell’Europa dei nazionalismi rampanti, dove gli esecutivi a trazione tecnocratica sono solitamente presentati come intromissioni indebite nelle questioni interne. Un consenso trasversale, sia presso i parlamentari (389 voti a favore della fiducia, più del triplo dei voti contrari), sia presso la popolazione, favorevole alla sua azione politica nel segno di maggiore trasparenza e riduzione delle lungaggini burocratiche.
Le proteste stanno chiedendo a gran voce la riforma completa del sistema politico e il repulisti della classe dirigente.
A dicembre, tuttavia, la coalizione di centro-destra che dichiarava di voler raccogliere l’eredità di Cioloș ha raggranellato soltanto il 20% dei voti, venendo sonoramente sconfitta dai socialisti (45%). Nonostante un risultato così roboante, i vincitori hanno incontrato difficoltà a nominare il primo ministro. Con il candidato naturale, il leader del partito Liviu Dragnea, fuori dai giochi, in quanto precedentemente condannato per frode elettorale, era stata avanzata la candidatura di Sevil Shadeh, tatara musulmana. Nome scartato dal presidente Iohannis poiché ritenuta troppo vicina a Dragnea. A inizio gennaio si è trovato allora l’accordo sul nome di Sorin Grindeanu.
A meno di un mese dal suo insediamento, però, arriva la doccia fredda per gli elettori rumeni. Il governo Grindeanu propone la depenalizzazione dei reati di corruzione ed abuso di potere per importi inferiori a 200.000 lei (circa 44.000 euro): il reato imputato a Dragnea verrebbe cancellato. Le goffe spiegazioni dell’esecutivo, barricatosi dietro giustificazioni improvvisate come la necessità di ottemperare a una sentenza della Corte Costituzionale o lo stato di sovraffollamento delle carceri, non riescono a contenere l’eruzione della rabbia popolare. La piazza ottiene presto il suo obiettivo primario: la proposta viene ritirata dopo pochi giorni. Tuttavia, ad oggi non sembra che i manifestanti intendano accontentarsi di questa piccola vittoria di Pirro.
Il feeling della popolazione rumena con la piazza, per quanto mai esploso in numeri comparabili a quelli di febbraio, ha una lunga tradizione. Ma, come sottolinea un attivista di Timisoara, città-simbolo delle proteste anti-comuniste del 1989, la generazione che sta protestando in questi giorni non vuole essere una “generazione del sacrificio”, come quella dei propri genitori. Loro portarono sulle spalle il peso della transizione shock degli anni ’90, quando il dittatore comunista Nicolae Ceaucescu venne detronizzato, processato e fucilato nell’arco di una settimana. La folla che sta occupando le piazze da un mese chiede un altro futuro. Ma quale esattamente?
Il tratto più vistoso di queste proteste, lo spirito europeista, è quello che suscita le interpretazioni più contrastanti.
Definire con precisione chi rappresenti la fetta di popolazione scesa in piazza non è un’impresa facile. Anche abbeverandosi alla vox populi di chi è rimasto a casa si raccolgono sentimenti discordanti, tra chi sostiene i manifestanti, chi ne sottolinea l’estremismo e chi crede alla bontà della versione ufficiale. Come da copione per i movimenti anti-establishment, fluidi e post-ideologici, la folla è unita più da quello che rifiuta che da quello che domanda: finora è stata la lotta alla corruzione a fare da collante. Ciononostante, scavando sotto questa richiesta concreta, si scoprono trame più complesse e diventa possibile abbozzare l’identikit dei manifestanti. Sono scesi in piazza soprattutto gli under 40, una generazione e una classe sociale priva delle reminiscenze del comunismo e maturata politicamente nella Romania indipendente. Come spiega il ricercatore Stefano Bottoni, è il “ceto urbano, occidentalizzato, relativamente benestante ed istruito” il target di questa ondata di proteste. Nonostante la scarsa presenza di insegne partitiche, in piazza ci sono dunque soprattutto gli oppositori del partito socialista, gli elettori di centro-destra delusi dalle scorse elezioni e ispirati dalla linea di tolleranza zero verso la corruzione inaugurata da Cioloș. Una mobilitazione così imponente contro un governo in carica da un mese non poteva non far nascere il sospetto che i network dell’opposizione avessero giocato un ruolo determinante nel coordinare delle manifestazioni probabilmente nate in maniera spontanea. Non è un caso che il presidente Iohannis, leader dei liberali, si sia unito ai manifestanti. Confermando questo scontro tutto politico, a due settimane dall’inizio delle rivolte pacifiche, l’Accademia romena – legata ai socialisti ma solitamente defilata dalla scena pubblica – ha preso posizione, condannando le proteste con toni inaspettatamente virulenti.
Il tratto più vistoso di queste proteste, lo spirito europeista, è anche quello che suscita le interpretazioni più contrastanti. Sul sito di uno dei gruppi più attivi nel coordinamento delle proteste, per esempio, spicca il simbolo dell’UE di fianco alla riproduzione stilizzata dei confini rumeni ed è stata subito approntata una versione in francese, inglese e tedesco delle rivendicazioni. Quanto lo smaccato tono europeista è una cinica captatio benevolentiae per arruolare Bruxelles in una rivoluzione arancione in salsa romena o quanto è un sentimento sincero? Impossibile dirlo così presto. Certo è che coreografie rappresentanti la bandiera dell’UE, come quella allestita a fine febbraio, inviano segnali di tono opposto a quelli che più si sono guadagnati la scena recentemente, con la bandiera UE che ha suscitato un altro tipo di sentimenti incendiari. Nonostante la Brexit, la crisi economica e il fascino contenuto degli eurocrati di Bruxelles, ai confini dell’impero l’Unione Europea gode ancora di buona salute.